Come in una pièce di Pirandello, la gente di Palermo interpreta la propria parte con teatrale intensità
Ripartiamo dalle persone di Palermo: come contribuire alla raccolta fondi
Prima degli incendi che stanno imperversando, avevamo deciso di dedicare il numero di agosto a Palermo. Da giorni la città brucia. Per questo, oltre a raccontarvi le storie di 20 persone simbolo della città, vogliamo dare sostegno al territorio e lo facciamo insieme a Fondazione Sicilia, che, d’intesa con il Comune di Palermo, si occuperà di piantare nuovi alberi e ripristinare beni artistici e culturali danneggiati. Qui sotto trovate l’IBAN e la causale per contribuire alla raccolta fondi.
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CAUSALE: VOGUE ITALIA PER PALERMO
20 persone di Palermo, che magari conosci, con le loro storie e il loro stile su Vogue Italia di Agosto 2023
Da piccolina la frase che mi veniva rivolta più spesso era sempre la stessa: “non si può fare”. Era una sentenza senza appello. Ma lei, quell’incantesimo, l’ha rotto. Frequenta i Cantieri Culturali alla Zisa e fa la modella. Cerchiamo di esprimere le tensioni dei nostri giorni, nell’incertezza del domani, restando vivi. C’è un’aria magica a volte su Palermo, quando la senti su di te ti scoppia il cuore.
Quando mi descrive la sua casa, ha la stessa dovizia con cui decanta la freschezza del pesce esposto al suo banco del mercato di Ballarò: sarde, spada e tonnina. «Certo che abbiamo due cucine, ovvio: una di rappresentanza, in cui si riceve, e l’altra, per cucinare. Nel salotto? Il meglio mobilio, tutto “sbaruocco” autentico, comprato a rate, che mio marito non voleva. Aperto solo per i matrimoni, le nascite, le feste più importanti». Sono i sentimenti di chi si sente la “regina della casa” che, a Palermo, è l’affermazione di un matriarcato profondo, in cui l’uomo non può che arrendersi, se vuole restare vivo.
Qui è tutto giocato sulla prossimità, il rapporto di vicinato. Le case della città vecchia, zona Stazione Centrale, verso Ballarò, ne traspirano il senso più profondo. «Ci alterniamo nella lavata delle robbe (biancheria) io e Maria perché il filo da stendere è poco. Ci conosciamo da più di 20 anni e ci rispettiamo assai: ci sentiamo come sorelle, anzi “megghiu”». Giovanna Rubino, nonna di cinque nipoti – tutti della prima figlia –, conosce la fatica del mercato e parla con la vicina di continuo: «Ho sempre bambini per casa e Maria, se non è al mercato, ci giochicchia, ci butta uno sguardo e una vuciata (grido) al punto giusto».
Classe 1997, catturato da Roma per diventare attore, è Palermo ad avergli dato la sua cifra stilistica. «Non ci sono scorciatoie, questo mestiere è apprendistato perenne». Dopo il tuffo nel mare di Mondello, ci dice: «È un magnete emotivo, mi è entrata dentro con la mimica e la gestualità di quel teatro di strada del nostro dopoguerra». Cresciuto con la madre, Vittorio non teme altro nella vita, se non tradire la promessa resa a se stesso il giorno che lasciò casa. È segreta, e così resterà.
All’Accademia delle Belle Arti di Palermo studia fumetto e illustrazione, legge tutto e, soprattutto, guarda tutto. «Mi piace la carta, il fruscio dei fogli, quando lavoro». Per lei – qui fotografata accanto a Martina, figlia dell’artigiano dei pupi Salvatore Bumbello della Bottega storica Compagnia Opera dei Pupi Brigliadoro – la pagina bianca è come uno specchio in cui si riconosce in ciò che tratteggia. «E in questa visione c’è Palermo ma non è protagonista: anzi lo vorrebbe ma io cerco di tenerla a bada. Lei è prepotente». In che senso? Zaira conta i secondi e prende fiato per rispondermi: «Questa città a ogni angolo ha una lapide, un ricordo tragico da ricordare. Quella storia è nella nostra memoria, ci resterà, ma dobbiamo uscirne, con un nuovo racconto sulla città e sulle persone. Tocca a noi ora farlo. Dobbiamo pensare il nuovo. Vogliamo essere architetti del nostro futuro». Il suo desiderio più grande: restare qui, non essere costretta ad andar via per farcela.
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Capelli e baffi neri come il carbone. Ama dipingere, balla il tango e, nella sua vita precedente, ha fatto il parrucchiere. La galleria d’arte delle sue opere è la strada, la centralissima via Maqueda. Espone i suoi volti di donna, coloratissime tele che – ci tiene e lo sottolinea più volte – «posso realizzare anche su commissione. Il committente mi dice il soggetto, e io eseguo. I miei clienti? Turisti e palermitani». Durante l’intervista ci svela di avere altri nomi: Salvo e Serafino, con cui firma serie diverse di quadri. È uno, trino e palermitano doc.
Papà marocchino e mamma di qui, è nata in Marocco. Per lei, «Palermo è il pomeriggio di giugno, finita la scuola, noi felici e ricchi di libertà, i giochi d’infanzia, le ninne di mia madre in siciliano». Ora Nassima vive in Francia, ad Amiens. Vuole diventare modella professionista. Torna spesso a casa a incontrare le compagne di scuola e a risentire le cantilene, con il tempo fermo a quei pomeriggi d’estate.
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Il portamento è uguale e il volto anche: Mario Merola ha un sosia a Ballarò. Lo vedi camminare per i vicoli dell’antico mercato con la signorilità dei commercianti prosperi ormai da generazioni. «Un tempo, la domenica si stava chiusi e la famiglia si riuniva. Tredici figli, nove maschi e quattro femmine. Tutti, in un modo o nell’altro, facevamo affari a Ballarò. Noi frutta e verdura, per tradizione. La mattina ancora col buio allo Scaro (i mercati generali) per comprare la merce. Allora si viveva bene. Io oggi ci tengo alla mia persona. Ogni giorno apro il mio guardaroba e scelgo le camicie, i vestiti buoni, scarpe e “quasette” (calze). Ancora mi piace sentirmi “assistemato”. Poi vado pazzo per i profumi». A fine chiacchierata chiede una sigaretta. La ferma sull’orecchio e va via.
Nata a Palermo, 30 anni, è tra i volti promettenti del cinema italiano. Non ha mai perso il legame con la sua città. Fotografata davanti al Teatro Massimo, dice: «Le mie radici sono il valore aggiunto della mia professione». Ha vinto il premio Vittorio De Sica con Cuori puri, è stata a Venezia, nel 2022, con Spaccaossa. E in The Bad Guy è l’agente Leonarda Scotellaro.
È una dimensione a sé stante quella di Borgo Vecchio a Palermo. Vicoli, “stecche” di case e palazzotti per un quartiere che, nel bene e nel male, è una “repubblica indipendente”. Giuseppe Carollo, meccanico in pensione, l’ha vissuto ogni giorno in via Archimede, tra motori, oli e pistoni. «Vossia mi deve credere! Nel mio mestiere ci vuole orecchio. Il rumore è come un “chiantu” (pianto) e ci vogliono le manuzze giuste per risolverlo». La sua festa preferita? Quella di Sant’Anna, «la nonna di Gesù. Nel quartiere ci sono tanti “picciriddi” e mamme bambine. Anche la Madonna è madre e solo lei può capire». Tre giorni di luminarie, la processione della Vara e gran finale in piazza, con musica popolare.
A volte sembra una città mediorientale, Palermo. Al mercato del Capo, entrando da Porta Carini, inizia un’immersione olfattiva che seduce a ogni passo. Tutto viene esposto, il fresco come il cucinato. Se poi, a servirti le milinciane abbottonate, è una persona del Bangladesh che ti parla in siciliano, la storia si fa più divertente. «Che vuole, qui è tutto cambiato. Un tempo c’erano solo le famiglie del quartiere…». Maria Basso guida la bottega di frutta e verdura del marito con piglio da generalessa. «Da me solo il meglio e primizie di stagione. Ho clienti affezionati e li rispetto: grazie a loro ho fatto studiare i miei figli». Dall’alto impera l’immagine di Santa Rosalia, irradiando comprensione e salvezza certa per la città.
Palermo, Lugano. E ritorno. Zona Oreto bassa, vicino all’università. Ibtisem è nata tra i palazzi che costeggiano la grande arteria che dall’autostrada immette verso la città. Ventidue anni compiuti e gli ultimi quattro vissuti tra Palermo e Lugano dove studia Comunicazione aziendale all’università. «Nella mia città ancora non esistono le condizioni per raggiungere i propri obiettivi di vita». Il suo desiderio più forte: raggiungere l’autonomia senza più dover pesare sulla famiglia. «La Sicilia è complicata. L’Italia è complicata. Soprattutto per le nuove generazioni. Non credo che potrò, almeno nel medio periodo, tornare qui, ma non lo escludo del tutto». E aggiunge che i sentimenti sono «fuori tempo» e che Lugano «non è bella come dice la canzone (di Pietro Gori, ndr)».
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Vent’anni appena e la maturità di una testa sgombra da ogni frivolezza e concentrata sugli obiettivi: «Parto dalla danza ma cerco una pienezza espressiva, dove al movimento si aggiunga la cura della parola e della figura». Giulia è in cammino ma non conosce il punto di arrivo: «A Palermo devo la mia sensibilità e il coraggio verso il futuro».
C’è un luogo a Palermo che segna l’anima, ed è un simbolo di rinascita per la città. La chiesa dello Spasimo, con l’ex ospedale e l’annesso giardino, ne esprime il senso, anche civile, prima che storico e culturale. Loretta Di Mino ne è stata l’artefice. «Siamo nel 1985, la città era in fermento: volevamo una Palermo diversa e ritrovare l’orgoglio di esserne i cittadini. Le nuove energie dovevano indirizzarsi su obiettivi concreti. La chiesa dello Spasimo fu tra questi, con il Teatro Massimo. Il sindaco Orlando mi affidò il progetto di restauro ed è stata un’avventura bellissima». Sulla consolle del salotto di casa, Loretta ha il racconto fotografico di un posto leggendario e in cui ha provato felicità. Capi di Stato, regine e presidenti, personaggi della cultura, scrittori e artisti da tutto il mondo l’hanno visitato, non mancando, mai, di stringerle la mano.
Vive la città di notte perché la percepisce meno indifferente e ne ascolta il ritmo di lingue che cambiano di strada in strada. Rivendica la sua “palermitanità” anche se i suoi genitori – padre ghanese e madre nigeriana – non hanno raggiunto il suo stesso grado di integrazione. Fotografata all’Antico Stabilimento Balneare di Mondello, dice: «Questa città a volte mi sta stretta, non la capisco perché su noi immigrati è contraddittoria. Palermo è l’incontro tra culture diverse. È sempre stato così. Ancora non riesco a capire se, nel mio futuro, resterò, o andrò via. Il legame però non svanirà». Rebulaid canta e studia e vuole riuscire a vincere la sua partita con la vita. «Mi piace ascoltarmi e sento negli altri le mie stesse emozioni». Vive nella parte di Palermo più borghese, sorta a fine Ottocento e ai primi del Novecento, ma i suoi amici sono tutti nella città vecchia.
È nel vivaio teatrale dei Cantieri Culturali alla Zisa che Elena scopre una seconda sé, quella che, superando ogni paura, cerca di uscire dalle sicurezze familiari, per intraprendere la via, dolce e amara, dell’arte e della recitazione. «So che non sarà facile. Diventare attrici o attori, nel mondo di oggi, non richiede solo studio e abnegazione, talento e predisposizione. Occorre altro e ci vuole anche una buona dose di fortuna». Non teme di dover andar via, anzi, se lo augura: «Ho iniziato un percorso che devo completare. Poi vedrò dove orientare la mia attenzione. Il teatro è il traguardo a cui aspiro di più». Se ne va canticchiando Battiato: “Cerco un centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea, sulle cose, sulla gente”.
L’odore dell’acqua salata si sente distintamente nell’aria dell’Arenella quando il vento soffia da nord. È uno dei borghi marinari di Palermo, oggi inglobati dalla città degli anni 70, quella del “sacco” di Ciancimino & Company. Al primo nucleo di case di pescatori e magazzini per il ricovero di barche e reti, nell’800, si aggiunsero la tonnara dei Florio e il porticciolo con il molo. «Le nostre famiglie vivevano del mare e poco altro. Pescatori, marinai imbarcati su petroliere e traghetti, carpentieri e operai dei Cantieri Navali di Palermo. Questa razza siamo!». Giuseppe ha fatto il postino. Lui non è andato per mare. Vive ancora nella casa in cui è nato. Conosce tutti e il suo maestro di vita è stato lo zio, Nino Sileno, figura mitica tra le famiglie dell’Arenella.
La passione del pallone è nata al Don Bosco, in oratorio, sul campetto di cemento, nei pressi di via Libertà. Maria Chiara Dragotto è di Pallavicino, la casa dietro la chiesa, in quel quadrante della città che arriva sino a Mondello. Un tempo questa era campagna, la Conca d’Oro con giardini di agrumi, pieni di zagara profumata, ville principesche e piccole borgate rurali. Maria Chiara veste la fascia di capitano della squadra femminile del Palermo Calcio – fotografata al campo A.S.D. Tommaso Natale –, ma la squadra, oggi in serie C, nasce come Ludos Palermo, un pezzo di storia del calcio femminile della città. «Ho sempre giocato con la stessa passione dei miei coetanei uomini, nessuna differenza. Anzi, certi “cacoccioli” (carciofi, ovvero individui poco reattivi) me li dribblavo come l’acqua scorre nel Tamigi. Per gli attaccanti» – e batte le nocche della mano sul tavolo per far comprendere il concetto dell’ostinazione – «tutto si risolve in un attimo. Il gioco sta lì». Ma perché il riferimento al Tamigi? «Il calcio moderno è nato in Inghilterra, a Londra; è lungo quelle sponde che è diventato leggenda»
La Vucciria o si ama o si odia, non esistono vie di mezzo. Angelo ci ha passato la vita, prima con il padre, ora da solo. Stigghiole e figli masculi, gli ripetevano a casa. Le stigghiole sono i budellini degli agnelli da latte che, in tutta Palermo, sotto i ponti dell’autostrada, nei mercati del centro come quelli in periferia, vengono continuamente arrostiti, sul fuoco vivo della brace. L’odore acre e il fumo sono inconfondibili. È un cibo ancestrale, prettamente maschile, raramente piace alle donne. «Da me vengono i palermitani. Sono un’istituzione per loro, ma è mio padre che ha fatto tutto con questa macelleria».
È nata a Trapani ma vive da tempo a Palermo, dove lavora come insegnante di sostegno. Con I Leoni di Sicilia (2019, Editrice Nord), successo internazionale con oltre cento settimane di permanenza nella classifica dei libri più letti e un’omonima serie tv in uscita (trovi l’intervista a pag. 26 del numero di Agosto di Vogue Italia, ndr), ha narrato le vicende della famiglia Florio fino alla metà dell’Ottocento. Con il sequel L’inverno dei Leoni, uscito nel 2021, conclude la saga e si aggiudica il Premio Bancarella. «Quando ho visto il set romano della serie tratta dal libro, sono rimasta stupefatta per la ricostruzione fedele di tre rioni della città così com’erano nell’Ottocento», racconta Auci, qui fotografata davanti a uno dei ficus più antichi d’Europa all’Orto Botanico di Palermo. «Dal punto di vista sociale ed economico, è difficile trovare dei “leoni” nella Sicilia di oggi. Ma esistono nelle arti, nella musica e nella scrittura: ci sono tantissimi talenti chelottano per emergere!».