Pioveva a dirotto la sera in cui Silvia Romano fu rapita, era il 20 novembre del 2018, quando una banda armata la strappò ai suoi bambini del villaggio di Chakama, Kenya. E pioveva a dirotto all’alba del 9 maggio, quando gli uomini dell’Aise, la nostra intelligence estera, l’hanno ritrovata a trenta chilometri da Mogadiscio, Somalia.
Atterrata a Ciampino la ragazza è stata accolta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e i suoi familiari. Ha infatti potuto stringere di nuovo il papà Enzo, la mamma Francesca e la sorella, tra gli applausi e la commozione dei presenti. Vestita con jilbab, un abito tradizionale indossato dalle donne in Kenya e Somalia, con il capo coperto, guanti sulle mani e mascherina sul volto, è apparsa sorridente.
Silvia poco dopo è partita per la sede del Ros dei Carabinieri a Ponte Salario, dove è arrivata verso le 15 per parlare con il pm Sergio Colaiocco.
Il racconto della prigionia
“Sono serena. Durante il sequestro sono stata trattata sempre bene”, ha detto Silvia agli inquirenti del Ros e ai magistrati della procura di Roma in un colloquio durato quattro ore per ricostruire le fasi della vicenda.
“Ogni tre mesi cambiavo covo”, “gli spostamenti avvenivano a piedi, in moto o con altri mezzi” ha spiegato la ragazza dicendo di aver camminato anche per otto, nove ore di seguito, di non aver mai visto in volto i suoi rapitori, costantemente coperti, e raccontando con nuovi dettagli di quei giorni trascorsi senza mai essere stata legata né maltrattata.
I molti i trasferimenti da un nascondiglio all’altro, erano in luoghi abitati, dove Silvia non ha mai incontrato altre donne. Così i carcerieri, sempre gli stessi, cinque o sei, sono riusciti a tenerla nascosta in almeno sei covi all’interno di villaggi. “Loro erano armati, ma non mi sono mai sentita carcerata, perché ero libera di muovermi nei covi, anche se sorvegliati. Non c’è stato alcun matrimonio né relazione, solo rispetto”, ha aggiunto.
Il primo mese è stato duro ed è trascorso fra le lacrime, poi Silvia dichiara di aver capito che sarebbe stata aiutata e che i carcerieri non le avrebbero fatto del male. Ha chiesto un quaderno, annotando ogni spostamento orario, data, che le è stato requisito prima del rilascio. Ha chiesto dei libri e un Corano ed è stata accontentata. Gli uomini parlavano in una lingua che la giovane non riconosceva, forse un dialetto, solo uno di loro in inglese. Ha inoltre girato tre video, l’ultimo dei quali il 17 maggio ha reso possibile il suo ritrovamento e l’avvio delle trattative, grazie al lavoro incrociato tra intelligence italiana e turca.
“Mi hanno assicurato che non sarei stata uccisa e così è stato”, chiarisce la cooperante ai pm di Sergio Colaiocco insieme ai carabinieri dell’antiterrorismo.
La conversione all’Islam
“E’ successo a metà prigionia, ha raccontato Silvia: “mi è stato messo a disposizione un Corano e grazie ai miei carcerieri ho imparato anche un po’ di arabo. Loro mi hanno spiegato le loro ragioni e la loro cultura. Il mio processo di riconversione è stato lento”. Solo alla psicolaga -spiega- poco dopo il rilascio, dice che ha deciso di prendere il nome di Aisha in seguito alla conversione.
Già al suo arrivo Silvia aveva smentito i dubbi riguardo al fatto che la decisione fosse avvenuta a causa delle condizioni psicologiche affrontate in Africa, affermando che si è trattato di una sua libera scelta. “Nessuno mi ha costretta e non è vero che sono stata costretta a sposarmi, non ho avuto costrizioni fisiche né violenze”, ha dichiarato. Così è stata smentita l’ipotesi di un’adesione forzata all’Islam che sarebbe stata alimentata da una notizia circolata nei mesi scorsi. Sul web gli utenti, soprattutto gli haters avrebbero sostenuto e ritengono veritieri tali pettegolezzi, numerosi i commenti fatti in merito.
di Giulia Marchiafava