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Parlare inglese? Rende poveri e fa fumare


La lingua che si parla potrebbe influenzare gli investimenti e le scelte finanziarie dei cittadini spingendo, nel lungo periodo, verso ricchezza o povertà? Secondo una ricerca dell’Università di Yale decisamente sì. In particolare, lo studio condotto da Keith Chen, studioso di finanza comportamentale, ha evidenziato come parlare la lingua inglese potrebbe portare più facilmente verso una condizione di austerità e miseria.

La lingua tanto richiesta e ritenuta fondamentale per viaggiare e improntare la propria carriera a livello internazionale, a detta dei ricercatori di Yale, rappresenterebbe una falla colossale.

Presa in giro? Provocazione? L’ennesimo studio curioso che fa sorridere i ben informati? … Forse no. La tesi parte dall’analisi del metodo in cui la grammatica della lingua di Shakespeare e Dickens tratta il tema del futuro: l’inglese, infatti, separa nettamente il tempo presente da quello futuro e ciò avrebbe implicazioni sociali e culturali non trascurabili tra cui, in primo luogo, quello di incentivare la gente ad ignorare le preoccupazioni relative al domani e, quindi, al ritrovarsi poi a vivere peggio nel sottovalutato futuro.

Secondo Keith Chen, inoltre, parlare inglese incoraggerebbe a fumare di più e praticare poca attività fisica. Tra le lingue che risulterebbero avere un impatto economico favorevole invece il mandarino, il malese e lo yoruba.

L’italiano si porrebbe nel mezzo della classifica delle nazioni “risparmiatrici” in quanto il futuro inteso come il domani viene quasi impersonificato come azione o evento sicuro e, quindi, degno di essere considerato.

La distinzione tra i modi verbali di presente e futuro in italiano non è così netta: ad esempio, è perfettamente corretto dire “domani piove” (al contrario dell’inglese che pretenderebbe invece di utilizzare il verbo al futuro).

La ricerca ha causato ampie critiche e ilarità tra i membri della comunità scientifica che attribuisce da decenni i diversi atteggiamenti rispetto al risparmio a fattori sì culturali, ma indipendenti dal linguaggio. Ma Chen non si è scomposto: «Capisco benissimo le perplessità, sembrava un’idea forzata anche a me quando abbiamo iniziato la ricerca – ha commentato – Ci sono famiglie che vivono una in fianco all’altra, con stessi livelli di educazione, stesso reddito, e anche stessa religione. Ma se c’è una differenza di madrelingua, si trova un atteggiamento completamente diverso di fronte al futuro».

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