Sono i giorni del Festino di Santa Rosalia, non poteva quindi mancare l’omaggio ai babbaluci, le piccole lumache terrestri considerate vere e proprie irrinunciabili leccornìe. Così piccole ma capaci di arrecare assuefazione perché, non saziando mai, possono esserne mangiate a vagonate! E come recita anche un antico detto: “ziti a vasari e babbaluci a sucari nun ponnu mai saziari”. Ma vi siete mai chiesti perché i babbaluci si chiamano così? Scopriamolo insieme.
L’origine del termine babbaluci
L’origine del termine babbaluci, contrariamente a quanto si possa pensare, non è palermitana né propriamente sicula. Il nome proviene dall’antica Grecia, dal termine boubalàkion (βουβαλακιον). Con questo, si indicavano sia le lumache che i bufali. Perché due animali così diversi vi chiedete? Perché accomunati dalle corna sulla testa. Ben nota è la dominazione greca nell’Isola, e così il termine, modificato nella lingua siciliana, divenne poi buvalàci, rimanendo tale per alcuni secoli.
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La contaminazione araba
Ma la Sicilia fu porto accogliente per molte altre culture, tra cui quella araba. Proprio dagli arabi, la parola subì la contaminazione del termine babbūš, diventato poi per la gente del luogo babbùcia. Il nome indicava le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, da cui poi le “babusce”, le pantofole di pezza in siciliano. Da questa nuova mescolanza, nacque così la forma che oggi conosciamo: babbaluci.
Babbaluci e vavaluci
Ma non finisce qui! Un’alternativa a “babbaluci” è la grafia vavalùci, che però ha un’origine etimologica in parte diversa. Il termine, infatti, deriverebbe dall’incontro di babbalùci con vàva, che in siciliano sta ad indicare la bava prodotta dalle lumache, molto sfruttata peraltro in ambito cosmetico.
Che siano bianchi o “macchiati”, mangiati con lo stuzzicadenti o come il vero palermitano ama mangiarli, “cu scrusciu”, i babbaluci continueranno ad esser veri capisaldi della nostra tradizione.