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A che serve studiare? Rischio “crisi di vocazione” per le Università


Crollano le iscrizioni nelle università di tutto il Paese. Due i motivi fondamentali: la crisi economica e la consapevolezza che “il gioco non vale la candela“.

Per quanto riguarda la prima causa, facile individuare la ragione per cui un diplomato decide di non compiere l’ulteriore passo per specializzarsi e raggiungere un sogno professionale, magari coccolato sin da bambino: l’assenza di soldi.

Sì, perché quasi quattro milioni e mezzo di famiglie, in Italia, non arrivano a fine mese. I profitti “domestici” bastano e (non) avanzano a malapena per pagare l’affitto, il mutuo e le utenze e per dare un senso al frigorifero. C’è chi ha smesso di vivere ma sopravvive. Ovvia conseguenza è che le famiglie, soprattutto quelle che stanno nelle “classi di mezzo”, di rado hanno la possibilità di mantenere gli studi dei propri figli: il classico “sacrificio” di mamma e papà deve fare i conti con una realtà che ha messo al tappetto il “risparmio”, fino a qualche anno fa una tipica peculiarità dell’italiano.

La seconda, invece, concerne la crisi del mercato lavorativo. La laurea, infatti, non è più un “lasciapassare” per avere più chance per trovare un posto di lavoro degno di questo nome, soprattutto retribuito come meriterebbe. Ha più il valore del “riconoscimento” del percorso di studi compiuto piuttosto che di un titolo che dovrebbe certificare l’acquisizione di un merito.

Ciò avviene soprattutto per le lauree non “specialistiche”, quali quelle in Lettere e Filosofia, Scienze Politiche, Scienze della Comunicazione, e simili. Ma anche chi ha frequentato con successo Giurisprudenza ed Architettura comincia ad avere seri problemi. Non solo perché trovare un impiego è una missione ardua ma perché le retribuzioni sono al di sotto della media europea. Un esempio: come si legge qui, “a spasso per l’Italia ci sono oltre 150 mila architetti, 2,5 ogni mille abitanti. Molti di più dei 100 mila in Germania, e cinque volte di più dei 30 mila francesi o inglesi”. Inoltre, “il 73% dei giovani dopo sette anni di professione lavora ancora come collaboratore esterno di uno studio di terzi e con stipendi da mille euro”.

Insomma, stiamo assistendo al diffondersi delle “crisi di vocazione“. Perché diventare avvocati o architetti, se poi si rischia di guadagnare più o meno quanto un teleoperatore call center inbound? Perché perdere anni e anni sui libri, spendere un occhio della testa (magari lavorando e studiando al contempo), se il “gioco non vale la candela”?

Ecco, pertanto, il punto per cui chi di competenza dovrebbe attrezzarsi al più presto per correre ai ripari: dare un senso pratico alla laurea, porre in essere correttivi che diano un valore al merito e che arginino la “moria” delle iscrizioni.

Altrimenti, continuando di questo passo, l‘Università rischia di diventare un lusso per pochi.

Foto di Nicola Baruzzi (da Flickr)

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A proposito dell'autore

Blogger dal 2003, giornalista pubblicista dal gennaio 2013, ha scritto su diverse piattaforme: Tiscali, Il Cannocchiale, Splinder, Blogger, Tumblr, WordPress, e chi più ne ha più ne metta. Ha coordinato (e avviato) urban blog e quotidiani online. Ha scritto due libri: un romanzo e una raccolta di poesie. Ha condotto due trasmissioni televisive sul calcio ed ha curato la comunicazione sul web di un movimento politico di Palermo durante le elezioni amministrative del maggio 2012. Di mestiere vede gente e fa cose. E fa parte dello staff di Younipa.

1 risposta

  1. Midori

    Visti i tempi, per quanto quella descritta sia una triste realtà, mi duole dire che è stato molto più intelligente/furbo/coraggioso chi alla soglia dei vent’anni ha capito e deciso consapevolmente di seguire una strada alternativa a quella universitaria e se n’è ben poco pentito.
    Io me ne sn accorta più tardi, ma probabilmente se tornassi indietro commetterei lo stesso “errore”. Solo il tempo potrà dire se ne è valsa davvero la pena o i traguardi raggiunti rimarranno esclusivamente soddisfazioni personali senza nessun concreto sbocco.