Le mascherine di stoffa riescono a filtrare le nostre secrezioni? Hanno caratteristiche simili a quelle chirurgiche e si possono quindi utilizzare in sicurezza con un impatto minore sull’ambiente? A queste domande ha cercato di rispondere un’analisi condotta da Altroconsumo e pubblicata in anteprima da Salute che ‘promuove’ alcune delle mascherine in tessuto. Una buona notizia anche per l’ambiente, perché se tutti per andare a lavoro, a scuola o a fare la spesa usassero questi prodotti al posto delle mascherine usa e getta si risparmierebbero ogni giorno tonnellate di rifiuti di plastica e si inquinerebbe meno il pianeta con un risparmio anche per le nostre tasche.
Quelle di comunità
A differenza di quelle chirurgiche e delle Ffp2/Ffp3, quelle in stoffa, lavabili e riutilizzabili, sono definite mascherine di comunità perché non sono destinate ad uso professionale sanitario. Infatti, non sono tenute a rispettare le norme tecniche previste per le mascherine ad uso medico e filtranti facciali: si tratta, in sostanza, di capi d’abbigliamento, che non possono vantare alcuna performance in termini di filtrazione e traspirabilità. “Sappiamo però da alcuni studi pubblicati che anche le mascherine di tessuto possono avere un’efficienza di filtrazione e una traspirabilità simili o comparabile a quelle delle mascherine chirurgiche”, spiega Silvia Bollani, esperta di Altroconsumo. Questo si verifica di solito quando le mascherine di stoffa sono costituite da tre strati (uno esterno, uno interno a contatto con la bocca e uno intermedio, che può essere usa e getta) con tessuto a trama fitta.
L’analisi
Per capire quali capacità di filtrazione e traspirabilità abbiano le mascherine di comunità sul mercato, Altroconsumo ha portato in laboratorio 19 mascherine di comunità di varie forme (a becco, con e senza cuciture, con pieghe centrali) e materiali (cotone, poliestere elasticizzato, Tnt) vendute in diversi canali di vendita (farmacie, parafarmacie, grande distribuzione, negozi, vendita online). L’obiettivo del test era anche capire se è possibile smettere di usare mascherine chirurgiche in futuro (visto che sono fatte di plastica e vengono gettate nell’indifferenziata) e adottare mascherine di tessuto, magari non sintetico, lavabili e riutilizzabili, quindi con un impatto minore sull’ambiente.
I test
Le mascherine di comunità hanno sostenuto due prove: quella dell’efficienza di filtrazione batterica in vitro, cioè la capacità della mascherina di impedire il passaggio di goccioline microscopiche (del diametro medio di 3 micron) e la permeabilità all’aria o “respirabilità”, cioè quanto la mascherina permette di respirare agevolmente chi la indossa. Queste due caratteristiche sono state valutate sia nel prodotto nuovo sia dopo 5 lavaggi. Gli esperti hanno giudicato anche la vestibilità, ovvero la capacità della mascherina di adattarsi bene alle diverse conformazioni del volto, e le indicazioni in etichetta, come per esempio la taglia, le modalità di lavaggio e manutenzione.
Stoffa contro usa e getta
Dal test è emerso come sia possibile trovare delle mascherine di tessuto con buone prestazioni. “Sette prodotti in stoffa sono risultati ottimi, tre discreti ma ce ne sono anche altri che non sono pienamente soddisfacenti, perché pur garantendo una buona filtrazione non sono comode da indossare e quindi vengono messe male o scostate dalla bocca perdendo così efficacia”, spiega Bollani.
Consumatori confusi
Dunque, proteggersi dal Coronavirus in modo ecologico è possibile. Il problema è che il consumatore finale non sa come individuare quelle valide da quelle inutili o addirittura controproducenti, dato che in questo momento, in Italia, le mascherine destinate alla comunità non devono aderire a nessuno standard e non hanno alcun requisito minimo di performance da rispettare. Non è così in altri paesi, come Francia, Spagna, Portogallo e Belgio dove questi requisiti minimi esistono e possono essere facilmente identificabili dai consumatori.
L’Istituto superiore di sanità
Eppure, sul sito dell’Istituto superiore di sanità viene aggiornato ogni giorno l’elenco delle aziende italiane (ad oggi 36) che hanno seguito tutti gli iter di approvazione per produrre dispositivi lavabili certificati. Le prestazioni delle mascherine chirurgiche lavabili approvate dall’Iss sono esattamente le stesse di una mascherina chirurgica usa e getta: dunque, qual è il problema? “Quell’elenco – spiega Bollani – si riferisce a mascherine di uso sanitario. I produttori e i prodotti indicati hanno seguito un percorso obbligatorio accelerato creato quando in un momento di forte carenza di mascherine si è voluto velocizzare la produzione ad uso del personale medico”. Insomma, la certificazione non si riferisce a mascherine di comunità per le quali resta il caos di una scelta al momento del tutto casuale perché non c’è un logo che possa rendere riconoscibili quelle ‘a norma’.
La richiesta al ministero
Proprio per questo, con i risultati di questi test, Altroconsumo ha scritto una lettera al ministero della Salute e all’Istituto superiore di sanità: “Chiediamo che anche in Italia si introducano dei requisiti minimi di performance per mascherine ad uso esclusivo della comunità, lavabili e riutilizzabili per più cicli, validate da un laboratorio indipendente e facilmente identificabili grazie ad un logo univoco”, spiega Bollani. La Francia ha fatto da apripista, riunendo esperti e stakeholder intorno ad un tavolo per definire un set di requisiti minimi di performance per le mascherine “alternative” di utilizzo non sanitario, di stoffa, monouso o lavabili e riutilizzabili, denominate mascherine grand-public riconoscibili grazie ad uno specifico logo. Anche in Belgio esiste un documento di riferimento, in Portogallo e in Spagna l’agenzia del farmaco ha definito criteri e requisiti per le “Máscaras comunitárias ou sociais” ad uso unico o riutilizzabili. “Non stiamo proponendo un percorso autorizzativo centrale obbligatorio, ma un percorso volontario, ben delineato da un quadro normativo, che alla fine permetta di avere sul mercato italiano mascherine che offrano determinate garanzie ai consumatori”, conclude Bollani.
Inquinamento e mascherine
Nei giorni scorsi anche il Wwf ha puntato l’attenzione sul danno ambientale provocato dalla mascherine evidenziando che “se anche solo un ragazzo per classe (il 5% della popolazione studentesca all’incirca) disperdesse volontariamente o accidentalmente la propria mascherina, ogni giorno verrebbero rilasciate in natura 1,4 tonnellate di plastica: ciò significa che a fine anno scolastico sarebbero disperse in natura oltre 68 milioni di mascherine, per un totale di oltre 270 tonnellate di rifiuti plastici non biodegradabili in natura. È come se gettassimo ogni giorno dell’anno scolastico 100mila bottigliette di plastica in natura”.
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