Diana Biondi è la terza studentessa universitaria suicida dall’inizio dell’anno. Non il riflesso di una società che funziona. Resta un interrogativo. Perché?
Suicidi tra gli studenti, marcia silenziosa a Napoli: “Basta con la logica malata del sacrificio”
Quello della finta laurea, quando in realtà gli esami al traguardo sono ancora molti, è il copione più complicato da recitare. Eppure, viene scelto da studenti e studentesse che decidono di togliersi la vita. Diana Biondi si è lanciata in un burrone a Somma Vesuviana il giorno prima dell’annunciata proclamazione.
Una proclamazione che non sarebbe mai avvenuta perché tra lei e la tanto agognata corona d’alloro c’era ancora un esame, quello di Latino, probabilmente, la “bestia nera” del suo percorso di studi. Così, in preda ad una disperazione solo lontanamente immaginabile, Diana ha preso la più drammatica delle decisioni: quella di non fare più rientro a casa.
Chi ha tagliato il traguardo della laurea, o ha visto persone vicine farlo, sa che cosa significhino le settimane precedenti. Preparativi, acquisti dell’abito per la discussione, anticipi per la festa. Provate ad immaginare le sensazioni di quella giovane ventisettenne e di tutte le altre vittime del sistema.
Una realtà che porta un giorno all’azzeramento delle possibilità disponibili e diverse dal compimento dell’estremo gesto autolesionistico. Una visione da tunnel senza uscita. Un castello di bugie troppo grande per poter tornare indietro. Meglio farla finita piuttosto che deludere gli affetti. Di questo molto spesso si tratta. In totale tre le vittime da laurea dall’inizio dell’anno.
Nell’anzidetto sforzo immaginativo c’è inevitabilmente una parola capace di ossessionare e di non concedere tregua: perché. Già, perché?
Nel deserto delle risposte risuona forte la sofferenza dovuta a quella che viene definita performance universitaria. Che richiede agli studenti di essere sempre più performanti, eccellenti ed in pari con gli esami.
Il sistema va veloce, le sessioni si rincorrono, lo spettro del fuori corso e del “quanti esami ti mancano” diventa tiranno. Tiranno come il senso di sconforto e di abbandono. Quel libretto da riempire. Quell’elenco da spuntare.
Quelle aspettative talvolta troppo elevate da rispettare. Proibito fermarsi, obbligatorio macinare numeri. Se resti indietro sei fuori dal sistema. Non vali abbastanza. I “caduti della laurea” rispondono esattamente a queste logiche. “Perché”, quindi, va di pari passo con la parola pressione. Una pressione che spinge forte sul petto. E ci racconta storie come quella di Diana.
Dove si inceppa il meccanismo?
Quel che si deve sapere è che il suicidio rappresenta solamente la punta dell’iceberg di un fenomeno sommerso chiamato depressione universitaria. Una depressione che ha alla base il buco nero della vergogna e le difficoltà nell’invocare aiuto rispetto agli ostacoli universitari. Tutti sentimenti esacerbati dalle aspettative, autoimposte o derivanti dal circuito familiare, e da una performance che mal si concilia con le peculiarità e le tempistiche dei più. Ma che sicuramente risponde a tanto precostituiti quanto irraggiungibili standard accademici. Sostanzialmente una corsa al risultato.
Troppo spesso, nell’assordante solitudine di chi ne è afflitto, ci dimentichiamo che la depressione è una malattia. Non una decisione. Non una colpa.
E allora qual è la soluzione? Basterebbe iniziare ad insegnare che si è persone di successo quando si è felici piuttosto che quando otteniamo un certo risultato dal calcolo ponderato della media. Perché quel calcolo, mai bisogna dimenticarlo, non sarà mai in grado di stimare il valore della vita. Il valore della nostra vita.
In questa direzione, pertanto, non solo le famiglie dovrebbero cercare di ascoltare i loro ragazzi, di incoraggiarli di fronte alle difficoltà e magari, se ne hanno bisogno, anche a prendersi una pausa.
Ognuno vive e costruisce nel proprio tempo. Per questo i ragazzi devono essere resi partecipi del loro stesso futuro. E al contempo le istituzioni dovrebbero prendere di petto la questione. Investire in sportelli di assistenza e supporto psicologico. Affinché non si muoia più di università.
Non sappiamo che cosa abbia davvero spinto Diana a togliersi la vita. Ma gli elementi che oggi abbiamo a disposizione ci consentono di sostenere con prossimità vicino alla certezza che il peso della non laurea l’abbia irrimediabilmente schiacciata.
Che la sua storia, così come quella di chi l’ha preceduta, serva almeno in tal senso. Ad accendere i fari su di un fenomeno ancora troppo sommerso come quello del disagio psicologico che miete vittime tra le mura ingombranti degli atenei. Perché quando si entra in certi circoli viziosi un esame non è mai soltanto un esame.