Il viaggio lungo i binari da Trapani a Ragusa, tra continui cambi e innumerevoli fermate. Le stazioni, i sanitari smaltati, l’ironia: «Ai turisti qui vogliono male»
Quando i 97 esasperati passeggeri del Regionale 21882 cominciano a picchiare i pugni contro le porte a soffietto della littorina Fiat 668 (66 posti a sedere, 43 anni e chissà quanti chilometri di onorato servizio), l’uomo della provvidenza monta su una panchina e alza la voce per sovrastare le proteste. «Signori — esordisce il capotreno — il passaggio a livello di Marausa è appena stato aggiustato, il treno delle 17.30 è cancellato mentre non ho notizie di quello delle 19.52. Saliamo ordinatamente lasciando sedere anziani, donne e bambini e avete la mia parola che arriviamo a Marsala». Uno dei più arrabbiati — la faccia diffidente del pendolare cronico — incalza: «E la coincidenza per Sciacca?». Il controllore, sospirando: «Quella non la posso garantire: Sciacca è nelle mani di Dio».
Le «ritirate»
A Dio piacendo, dalla stazione di Trapani parte ogni giorno il treno regionale più lento d’Italia e magari d’Europa: tredici ore e otto minuti (salvo ritardi, festivi esclusi) per arrivare a Ragusa dopo quattro cambi e 47 fermate in altrettante stazioni «impresidiate», ovvero (burocratichese Fs) abbandonate alla natura (fanno, circa, 25 km/h). Da capoluogo a capoluogo, in auto servono tre ore e mezza, in treno dall’alba al tramonto. Lasciamo Trapani puntuali alle 6 e 50 del giorno successivo all’ammutinamento mancato, in compagnia di Vita (impiegata al distretto sanitario di Marsala) e Tommaso che studia all’alberghiero Ferrara di Mazara del Vallo: scontato del bonus trasporti (60 euro), l’abbonamento mensile costa 3,70 euro. Impregnata dall’odore di nafta, la littorina è un dignitoso pezzo da museo, le commoventi «ritirate» con i sanitari smaltati originali e i rubinetti d’ottone. Prima tappa Palermo, in teoria a un tiro di schioppo: nel 1933 ci si arrivava in due ore e mezza, dal 1953 al febbraio 2013 in due ore. Poi un bel giorno la linea franò: «La ripristineremo in pochi giorni» dissero le Fs. Dopo dieci anni si gira ancora larghissimi sulla linea per Mazara, Marsala e Castelvetrano arrivando nel capoluogo dopo cinque ore.
Sosta al mercato
All’alba sui due vagoni del 21858 a Trapani (la nobile stazione ottocentesca è fasciata dalle impalcature) eravamo saliti in 21, dopo Marsala rimaniamo in tre, io, la signora Cosima detta Mimma (va a prendere la sorella a Punta Raisi, non ha la patente e soffre il bus) e Vittorio — postale in pensione — diretto ad Alcamo che si agita quando ci fermiamo a Birgi: «Due chilometri a sinistra — spiega — e c’è l’aeroporto, basterebbe un binario per collegarlo; due a destra lo Stagnone, Mozia e il suo Efebo che vengono a vederli da tutto il mondo. Non c’è uno straccio di taxi o navetta: ai turisti noi siciliani vogliamo male». Scorrono senza che salga o scenda anima viva la Salemi dell’assessore Sgarbi, l’Alcamo del poeta Ciullo, Castellammare e Cinisi dove L. (giovane controllora, «il nome completo no per favore che finisco nei casini») ci svela la sua strategia per farci arrivare a Palermo in anticipo. Poiché sbuffano vapori di nafta irrespirabili nelle cento gallerie dopo Punta Raisi, tutte le littorine da Trapani si fermano nell’oscura Piraineto («Cespugli e rovi ciclopici, fontanella d’acqua potabile con rubinetto murato, la stazione più brutta d’Italia», racconta applauditissimo il recensore Riccardo C. su Google) dove ci sarebbe un’ora di attesa per la coincidenza sul modernissimo «Pop». Ma L. ha scoperto sul tablet di servizio che siamo in anticipo di un minuto mentre il 5602 per Palermo è in ritardo di tre. Scendiamo al volo e grazie a lei l’ora di sosta la spenderemo alla Vucciria davanti a un arancino.
I «direttissimi»
Sul tabellone partenze di Palermo Centrale lampeggia il Trinacria delle 12.35, l’Intercity Notte che sbarca a Milano dopo 23 ore di viaggio, ultimo erede di una dinastia di mitologici direttissimi che potevi chiamare per nome e portavano dritti in Continente: Freccia del Sud, Freccia della Laguna, Akragas Express, Conca d’Oro, Archimede. Oggi sono tutti estinti: sbarcati a Villa San Giovanni dalle comode Frecce e Italo, si traghetta per entrare nel Girone dei Regionali. Il viaggio verso Ragusa procede sul modernissimo 21720, prima lungo il mare e poi tra aranceti e distese di cardi della collina. Dei turisti fuori stagione (due olandesi, una tedesca, due giapponesi) i controllori si fanno amorevolmente carico per poi smistarli verso la destinazione finale. Lo snodo cruciale è la stazione più triste della Sicilia, Xirbi: chi prosegue per Catania resta a bordo, chi dirige a Trapani o Agrigento scende qui, nel nulla assoluto (Xirbi deriva dall’arabo xar-xir, pietraia) di questo luogo da cui fino agli anni Cinquanta partivano i treni minerari per Centuripe, Radusa, Pirato e le zolfare di Girgenti. Qui, il 21 marzo 1943, accadde uno degli incidenti più tragici e inesplorati della storia ferroviaria italiana: 137 giovanissimi soldati dell’agonizzante Regno persero la vita su un treno militare investito da un altro convoglio che, sabotato o guasto, arrivava a velocità folle da Caltanissetta. A ricordarli un’anonima targhetta sul brutto edificio della stazione.
Il litorale di Gela
Bella, bellissima è invece la stazione di Caltanissetta da dove parte (al tramonto) l’ultima frazione del viaggio: inaugurata nel 1876, è stata restaurata con gusto e amore superiori allo scarso traffico passeggeri. Scendiamo verso la costa in compagnia di una trentina di studenti palermitani che tornano nel ragusano per Natale. Il Minuetto arranca tra Canicattì e Campobello dove un tempo partivano a decine i merci carichi di uva e zolfo: a Ravanusa c’erano il trenino di Favarotta e la teleferica per le miniere di Talarita, a Licata la diramazione per il porto e l’imbarco: tutto cancellato, distrutto, ridotto a rudere. Un buio pietoso cancella gli orrori del litorale di Gela. A Vittoria restiamo a bordo in dieci, nella Comiso di Gesualdo Bufalino in cinque mentre il Minuetto (che va a nafta, per i treni ibridi su queste linee non elettrificate bisogna aspettare) comincia a sbuffare sempre di più in salita.
Arrivando a Modica
È quando entriamo rantolando nella stazione di Ragusa (cosa volete che siano 13 minuti di ritardo dopo un giorno intero di viaggio) Girolamo, macchinista «in transito», ci informa che la corsa non termina nel capoluogo, come pensavamo: il servizio si chiude mezz’ora dopo tra le meraviglie di Modica, dove il treno riposerà fino all’alba prima di ripartire per Siracusa. Sbarchiamo a Modica alle 20 e 30: nella stazione deserta le luci sono fioche e manca perfino il sottopassaggio. Attraversiamo i binari spaesati come i contadini girgentini de Il Lungo Viaggio, uno dei racconti più belli di Leonardo Sciascia, che avevano affidato i loro risparmi e la loro vita a un intermediario, il signor Melfa, che li imbarcò a Gela con la promessa di traghettarli in America. Lasciati di notte su una spiaggia dagli scafisti dopo giorni passati sottocoperta, vagabondarono per ore prima di buttarsi «come schiantati sull’orlo di una cunetta: ché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia».