I ragazzi vogliono darsi da fare, chiedono dignità e diritti, ma non li trovano. Il racconto di Clara, partita dal Sud con entusiasmo e oggi piena di amarezza
“I giovani avrebbero bisogno di essere accompagnati nel mondo del lavoro, aiutati a costruirsi un futuro e invece troviamo solo chi si approfitta di noi e quando chiediamo ciò che ci spetta ci mandano via”. Sono parole di Clara (il nome è di fantasia ma la storia – purtroppo – è verissima e non unica), una ragazza minuta ma “tosta”. Clara ha 24 anni, quando è arrivata a Roma dal paesino del Sud dove è nata – e dove ha lasciato famiglia e affetti – di anni ne aveva 19, era il 2017. Ha capelli scuri come la terra arsa dal sole, occhi chiari e luminosi come il mare illuminato e un sorriso aperto e fiducioso. Ma quando racconta la sua storia si incupisce e scuri diventano anche i suoi occhi.
L’arrivo nella Capitale
Sei anni fa sale su un aereo piena di sogni e con una passione: la cucina. I nonni gestivano un ristorante e il racconto dei piatti preparati dalla nonna e dei dolci inventati dal nonno “mentre ascoltava le canzoni alla radio” trasmettono odori e sapori. Forte di questo bagaglio e di una grandissima volontà trova subito lavoro. Chiamarlo lavoro, però, non è corretto. Clara viene impiegata come cameriera con un “contratto di prova per un mese” in un ristorante-pizzeria. La domanda che diventa inevitabile porsi è che razza di contratto fosse e da quali organizzazioni sindacali sarà mai stato sottoscritto, visto che prevedeva una retribuzione di 25 euro a servizio (per servizio si intende un turno, quello del pranzo o della cena) effettivamente lavorato. Il che significa che il turno settimanale di riposo non veniva retribuito. E non finisce qui. Secondo questo fantomatico contratto Clara avrebbe dovuto lavorare dalle 11 alle 16, ma in realtà cominciava alle 9 del mattino e “staccava” alle 17. Il tutto sempre per 25 euro.
La prova che si trasforma in nero
Il mese di prova finisce e nulla accade. Quello strano contratto non viene formalmente rinnovato e trasformato in assunzione e Clara continua a lavorare alle stesse condizioni, ma a quel punto totalmente in nero. Spesso costretta a due servizi giornalieri, lavorando così dalle 9 del mattino fino a conclusione della fascia serale. “Però se facevo il doppio turno, la mattina dopo stavo a casa”, racconta. Passa un mese, poi un altro e un altro ancora, ma del contratto promesso nemmeno l’ombra. “Mi sentivo presa in giro, avevo la speranza che mi assumessero e invece non succedeva mai”. Allora Clara si guarda intorno e di “lavoro” ne trova un altro. “Pensa – mi dice – mi hanno fatto subito il contratto”.
Contratto o inganno?
Stavolta si tratta di un locale di ristorazione veloce, con un orario settimanale che consente a Clara di integrare il salario facendo qualche turno in un altro ristorante. “Avevo un contratto a 30 ore settimanali, a tempo determinato, con pagamento a voucher”. “Ma tu il contratto lo hai visto? A quale contratto collettivo faceva riferimento?”, le chiedo. La risposta lascia interdetti: “Mi hanno detto che era un contratto di apprendistato a tempo determinato per 6 mesi, con pagamento a voucher, circa 700 euro al mese per 30 ore settimanali”. E così il “contratto” è terminato e con esso anche il lavoro.
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Il grande ristorante
E arriviamo al 2018. È un locale importante quello dove Clara fa qualche turno per integrare il salario. La prendono subito, ma rigorosamente in nero per sei mesi. “Mi chiamavano al bisogno, mi davano 40 euro a servizio, il servizio cominciava alle 16 e finiva quando finiva, a mezzanotte, l’una, le due, dipende”. Finito il “periodo di prova”, le viene finalmente proposto un contratto. “Era a tempo determinato, 40 ore settimanali, un riposo a settimana e sabato e domenica doppia. L’orario ordinario era dalle 16 fino a chiusura del locale e il fine settimana dalle 9 del mattino fino a chiusura”. Basta fare due conti per capire che tutto questo in 40 ore non ci sta. “Ma infatti 40 ore erano quelle del contratto, in realtà ne lavoravo 65, anche 70”, spiega. E il salario? Risponde sicura: “720 in busta per le 40 ore del contratto e 180 per tutte le altre fuori busta. Arrivavo a 900 euro al mese”. Riassumendo: 900 euro al mese per 65-70 ore a settimana.
La grande ribellione
Clara non ne può più, dopo oltre un anno di questa vita si rende conto di non farcela a sostenere questi ritmi e chiede una cosa all’apparenza ovvia: “Volevo solo fare le 40 ore previste e loro avrebbero dovuto assumere un’altra cameriera. Eravamo in tanti nelle mie condizioni, si sarebbe potuto dare lavoro ad altro personale”. La risposta arriva netta e precisa: “Mi hanno mandato via”. Però Clara una soddisfazione riesce a prendersela, si rivolge a un Caaf dove le fanno i conteggi di quanto avrebbe dovuto avere: “Sono tornata dal vecchio datore di lavoro e minacciando una vertenza ho ottenuto tutto”.
«Cambio vita»
L’amarezza è tanta e Clara decide di abbandonare il suo sogno legato a sapori e odori di cucina, segue le orme della mamma, frequenta un corso professionale e diventa estetista. Ora ha un contratto regolare a part-time verticale, lavora 3 giorni a settimana, con una busta paga “vera”. Certo non proprio tutti i suoi diritti vengono rispettati ma è tornata a sorridere e a pensare al futuro con il suo compagno. Di lei tutto si può dire tranne che non avesse e non abbia voglia di lavorare.
Considerazioni a margine
“Non conoscevo quali fossero i miei diritti, e in fondo bene non lo so nemmeno ora. L’esperienza me la sono fatta strada facendo con le circostanze che vivevo. Mi fidavo. Noi giovani dovremmo essere aiutati e apprezzati, invece veniamo sfruttati. E poi quando si è costretti a vivere situazioni come queste si rimane molto delusi”, conclude Clara.
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Da settimane si susseguono appelli di imprenditori del settore turistico e della ristorazione alla ricerca di personale. Se non trovano risposta, però, occorre domandarsi perché. Certo la “colpa” non è delle tante Clare che voglia di lavorare ne hanno tanta, ma non vogliono essere sfruttate. E non è colpa neanche del reddito di cittadinanza (Clara non lo ha mai chiesto, pur essendo rimasta tante volte senza occupazione). La maggior parte di chi lo percepisce ha più di 50 anni, al massimo ha frequentato la terza media e quegli imprenditori nei loro locali non li assumerebbero.