Matrimonio annullato. Ecco cosa fare in caso di annullamento delle nozze per coronavirus.
E’ possibile ottenere la restituzione delle somme versate per organizzare la cerimonia?
I vari provvedimenti governativi volti al contenimento della diffusione dell’epidemia da covid-19 hanno posto severe restrizioni agli spostamenti, sia nazionali che internazionali, e alla libertà di riunirsi.
Tali provvedimenti hanno impedito anche la celebrazione di matrimoni e, conseguentemente, i relativi banchetti se non per un numero davvero ristretto di persone.
Pertanto, in un contesto caratterizzato da grosse incertezze sul futuro e sulla possibilità di ritornare a celebrare in tutta normalità questo genere di eventi, numerose coppie di “promessi sposi” hanno deciso di annullare le nozze da tempo programmate. Con conseguenti ingenti danni non solo per il settore economico di riferimento, ma anche – e soprattutto – per chi deve fronteggiare i costi legati alle nozze;
Ci si chiede se sia possibile ottenere la restituzione delle somme di danaro versate a titolo di caparra o sotto forma di acconti a favore di agenzie matrimoniali, organizzatori di eventi, alberghi e ristoranti ove si sarebbero dovute celebrare le nozze.
Per i matrimoni e i ricevimenti che si sarebbero dovuti celebrare nei mesi in cui l’emergenza sanitaria era nel pieno della sua evoluzione e diffusione (facciamo riferimento essenzialmente al periodo primaverile, durante il quale vi è stato il lockdown, ossia il periodo che va da marzo a maggio 2020) e per i quali i “promessi sposi” avevano stipulato contratti con hotel, ristoranti od agenzie organizzatrici di eventi, gli interessati possono invocare l’applicazione dell’art. 1256 c.c., ai sensi del quale l’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.
Se l’impossibilità è solo temporanea (quindi, non assoluta), il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento.
Tuttavia, l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.
E’ possibile invocare, inoltre, l’art. 1463 c.c., il quale stabilisce che nei contratti con prestazioni corrispettive la parte liberata per la sopravvenuta – e non preventivabile né evitabile al momento della stipulazione del contratto – impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, ed è tenuta a restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito (artt. 2033 e ss. c.c.).
L’emergenza scaturita dalla diffusione del Coronavirus rientra sicuramente nella fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta, non imputabile al debitore, assoluta ed obiettiva, dato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ha classificata, con Dichiarazione dell’11/03/2020, come una vera e propria Pandemia.
Qualora una coppia di nubendi avesse firmato un contratto con una struttura ricettiva per l’organizzazione del ricevimento in una data certa, messa nero su bianco all’interno del contratto stesso, potrebbe essere tirato in ballo anche il concetto di termine essenziale.
Relativamente all’essenzialità del termine, una consolidata giurisprudenza afferma che “In tema di obbligazioni contrattuali, il termine per l’adempimento può essere ritenuto essenziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 1457 c.c., solo quando, all’esito dell’indagine contrattuale, da condurre alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto, risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine medesimo.
Tale volontà non può desumersi solo dall’uso dell’espressione ‘entro e non oltre’ quando non risulti dall’oggetto del negozio o da specifiche indicazioni delle parti che queste hanno inteso considerare perduta l’utilità prefissasi nel caso di conclusione del negozio stesso oltre la data considerata”.
Cosa succede, invece, se i futuri sposi versano uno o più anticipi per “bloccare” la sala ricevimenti, senza firmare alcun contratto?
La risposta a tale quesito varia a seconda della natura e delle caratteristiche dagli accordi verbali intercorsi tra le parti, così come risultano dalla (eventuale) relativa documentazione bancaria.
In particolare, qualora la causale del bonifico di pagamento dell’anticipo presentasse la dicitura “versamento caparra”, la somma versata non dovrà essere restituita ai nubendi.
Nel silenzio del Codice del consumo, infatti, per la disdetta del ricevimento nuziale si fa riferimento alle regole generali del Codice civile: se viene espressamente richiesta una caparra “penitenziale” secondo gli usi e le consuetudini il ristorante o la struttura ricettiva, dopo aver incamerato la somma, non può agire per ulteriori risarcimenti;
se, invece, la caparra richiesta per l’organizzazione delle nozze è “confirmatoria”, il ristorante può agire per il risarcimento del danno, oltre ad incamerare la caparra ex art. 1385 c.c., purché però lo dimostri, per esempio provando che ha già sopportato delle spese o che ha dovuto rifiutare un’altra prenotazione per la data concordata con i nubendi.
Per legge il contratto deve stabilire che andrà restituito il doppio della caparra se è il ristoratore a rinunciare al servizio: qualora questa previsione non fosse riportata, la disdetta sarà gratuita anche per gli sposi. Se, invece, la causale del bonifico è semplicemente “cauzione”, “anticipo”, “acconto” e simili, allora la somma dovrà essere restituita ai nubendi.
In virtù del combinato degli artt. 1256 e 1463 c.c., dunque, i nubendi che abbiamo versato tempo prima dell’imperversare del virus delle somme di denaro a titolo di caparra o di acconto a favore di hotel o ristoranti per bloccare la location delle nozze e che si trovino ora nell’impossibilità sopravvenuta per covid-19 di dare corso al contratto, possono chiedere la risoluzione del contratto stesso, con diritto alla restituzione delle somme versate. Tuttavia, nulla vieta che le parti si accordino per rinegoziare il contratto, spostandone l’esecuzione ad altra data e tenendo fermo l’acconto già versato.
E’ questa la logica sottesa dall’art. 88 del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020, il quale riconosce la possibilità alla struttura ricettiva di creare un particolare titolo di credito, chiamato “voucher salva-vacanza”.
Questo documento viene rilasciato a coloro che, dopo aver prenotato o acquistato un soggiorno e dopo aver versato il relativo prezzo o una parte di esso, si trovano costretti a rinunciare al viaggio o all’evento programmato per una delle ragioni indicate dal provvedimento normativo, tra le quali rientrano anche i divieti imposti dalle autorità amministrative per contrastare la diffusione del virus.
Il voucher in questione, dal valore pari agli importi complessivamente versati dall’acquirente i servizi turistici o inferiore ma con rimborso della differenza di prezzo, è valido per tutte le strutture ricettive italiane aderenti e a prescindere dalla nazionalità del cliente e dalla sede dell’agenzia di viaggio o del portale internet tramite cui è stata effettuata la prenotazione, e può essere utilizzato entro un anno dalla sua emissione. (studiocataldi.it)
Leggi anche:
Tragedia al circo, orso sbrana domatore 28enne: non l’ha riconosciuto perché indossava la mascherina