Matteo Messina Denaro, playboy impenitente e amante delle belle donne, sarebbe stato anche coinvolto in festini hard organizzati a Palermo da signore di una certa età dell’alta borghesia con studenti universitari. Una retroscena pruriginoso, emerso quasi vent’anni fa durante il dibattimento davanti ai giudici della Corte d’Assise di Palermo per l’omicidio di Calogero Santangelo, un giovane di 25 anni iscritto a Medicina e originario di Castelvetrano. L’uccisione dello studente sarebbe stata chiesta a Totò Riina dal padre di Messina Denaro, il vecchio boss Don Ciccio, che era stato padrino di battesimo della vittima. Per anni la morte di Santangelo è rimasta un mistero. L’inchiesta è stata più volte archiviata, fino a quando il pentito Giovanni Brusca ha raccontato che ad indurre Messina Denaro a chiedere l’eliminazione del ragazzo, che col figlio del capomafia condivideva donne e bella vita, sarebbe stata una partita di droga sottratta a Cosa Nostra.
Ma c’è di più: durante la deposizione in aula del migliore amico della vittima, Salvatore Errante Parrino, è emerso anche che Santangelo avrebbe invitato spesso l’amico Matteo «per svezzarlo» ad alcuni festini a luci rosse. «Allora era ancora uno sbarbatello – ha detto ai giudici Errante Parrino – e Lillo Santangelo volle introdurlo nel nostro ambiente goliardico di studenti universitari che c’era negli anni Ottanta a Palermo. Ricordo che allora avevamo conosciuto delle signore di Palermo dell’alta borghesia che non lesinavano a fare feste invitando anche ragazzotti e studentelli. Ci mancava una persona per compensare con le donne presenti, e Lillo invitò Matteo. Ricordo che lo portammo alla festa e si divertì come un pazzo».
«Questo genere di inviti proseguì anche altre volte – ha aggiunto il teste – c’era un nostro collega iscritto a medicina che conosceva molte signore che allora si definivano tardone piacenti. Organizzò una festa e di queste donne ne erano presenti sei o sette, ma ci voleva un numero superiore di picciutteddi perchè un ragazzino per ogni donna non ce la faceva. Cercammo aiuto, e ognuno di noi si diede da fare per rintracciare qualcuno che ci potesse dare una mano a superare la nottata che si presumeva abbastanza lunga e intensa. Chiamammo Matteo, perchè prendeva la macchina e veniva di corsa da Castelvetrano. E così fece». (GdS)