Grandiosi edifici di epoca normanna e araba ma anche vicoli inquietanti. Il sublime convive con ferite urbanistiche lasciate dalla speculazione mafiosa. E i murales dipinti sulle case degradate, esprimono la voglia di cambiare
Palermo. Eccessiva. Esagerata. Ribollente di tutto, come nessun’altra città italiana. Neanche Napoli regge a questo confronto. Percorrendo le strade di questa capitale incontri a ogni passo un intreccio indissolubile di magnificenza e decadimento, scintillio e sporcizia, bellezza e abbandono. Contrasti, antipodi.
Posti stupefacenti (per esempio fra i tanti, il Parco della Favorita, il Giardino Botanico, persino un campo da golf nel cuore della città) sono incastonati tra angoli di grande degrado; mare e montagna si fondono; vicoli inquietanti si alternano a vie luminose; grandiosi edifici di epoche normanne, arabe, barocche, rinascimentali, neoclassiche e liberty convivono con le ferite lasciate dall’incursione mafiosa degli anni Cinquanta e Sessanta. Il grande sfregio inflitto alla città dall’urbanistica malavitosa dei Lima, dei Ciancimino e dei loro complici.
Tremila concessioni edilizie
Investigando la vicenda, emergono fatti sconcertanti: durante quegli anni, ben tremila concessioni edilizie furono rilasciate a cinque individui, di cui quattro completamente insolvibili. Teste di legno per la malavita e i costruttori. Parchi storici deturpati e gioielli architettonici annientati per la più smisurata speculazione criminale nella storia della nazione. Muovendoti attraverso Palermo, letteralmente percorri i secoli di una storia tumultuosa e spesso insanguinata. Tutto si sovrappone, come in un’affascinante installazione curata da un creatore audace e poco preoccupato per le polemiche. Un ragazzo che ha studiato all’estero e che proprio per questo si sente ancora più palermitano mi dice: «Siamo collezionisti seriali di stili architettonici, custodiamo ogni cosa. Belle e brutte, tutto».
Sublime e mostruoso
È vero. Tutto si fonde con tutto. Il sublime e il mostruoso. Una vegetazione rigogliosa, talvolta selvaggia, s’insinua tra le pietre delle case, come in un esperimento spontaneo di architettura organica.
Profumi e odori spiacevoli: aria di mare e smog, essenze vegetali come gelsomini, buganvillea, zagare (per chi sa coglierle), ma anche l’impronta olfattiva della spazzatura, talvolta parte integrante del panorama. Odori di cibo, dalle grigliate alle fritture, con fragranze minacciose e irresistibili che a tratti sovrastano ogni altra sensazione. Il cibo. Ebbene sì, il cibo. Passeggiando per le strade di Palermo, percorrendo i mercati, ti trovi di fronte a una varietà incredibile di street food, eguagliabile soltanto da certe metropoli dell’Estremo Oriente. Arancine, panelle, crocchè, sfincione, stigghiola, pani ca’ meusa, sfogliatelle, cassatelle, cannoli, granite, spremute d’arancia e melagrana, calzoni, frittole, ‘mpanatigghi, scacciate, spiedini, cuccìa: una miriade di prelibatezze, unte, deliziose, a tratti enigmatiche. E, certo, non sempre sanissime. Percorrendo certe vie di Palermo, in questo spettacolare e caotico susseguirsi di case, piante, vecchi taxi, motocarrozzette, cose, persone ti vengono in mente le parole di Goethe sul suo viaggio in Italia, quando descriveva la villa del principe di Palagonia.
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Un caos sbalorditivo
“Uomini: Mendicanti di entrambi i sessi, spagnoli e spagnole, Mori, Turchi, gobbi, deformità di ogni tipo, nani, musicisti, Pulcinella, soldati con abiti antichi, divinità mitologiche, costumi francesi d’epoca, soldati con borse e uose, esseri mitologici con aggiunte umoristiche. Bestie: Parti isolate degli stessi, cavalli con mani umane, scimmie, numerosi draghi e serpenti, zampe di vario tipo e figure di ogni genere, sdoppiamenti e scambi di teste. Vasi: Tutte le varietà di figure che terminano con pance di vasi e piedistalli. Immaginate queste figure ammassate in abbondanza, prive di senso e ragione, unite senza criterio né discernimento, immaginate questi zoccoli e piedistalli e deformità allineati all’infinito.”
Un caos sbalorditivo. In teoria, non vorresti trovarti qui, eppure ti senti a tuo agio. Un luogo che normalmente eviteresti se sei abituato a contesti più ordinati, ma che invece desideri (è proprio lì che vorresti essere), dove trovi un senso in quel disordine, scopri un’idea di vita e di come gestirla anche in circostanze insolite. Nel mio giro per le città italiane, nelle conversazioni con i loro abitanti, pongo sempre una domanda – banale, ammetto – alle persone con cui parlo. La faccio per cercare spunti non ovvii, per tentare di interpretare le città da angolazioni non scontate. La domanda è: qual è la chiave di lettura per comprendere… e segue il nome della città. Ognuno risponde in modo differente: alcune risposte sono prevedibili, altre strane, altre ancora brillanti e capaci di illuminare l’argomento in maniera nuova.
Ho posto la stessa domanda a Palermo, a individui diversi per estrazione sociale, cultura e orientamento politico. Tutti hanno risposto nello stesso modo.
Le notti a Palermo
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La chiave di lettura di Palermo è costituita dai palermitani, nel bene e nel male. Mi dice Gaetano Savatteri, giornalista, scrittore e conoscitore come pochi di luoghi e persone: «Quando i palermitani attraversano la strada, non guardano. È un rapporto di potere, una sfida, una corrida tra pedoni e auto».
Una descrizione che fa capire un sacco di cose, nel bene e nel male. I palermitani occupano la loro città, di giorno e soprattutto di notte. Lo stesso ragazzo che mi ha parlato di accumulazione seriale di stili architettonici spiega: «Palermo di notte è una grande festa, un grande luogo di inclusione. Stiamo tutti insieme, facciamo casino tutti insieme anche ragazzi che votano a destra. Ci sono ragazzi che baciano ragazzi e ragazze che baciano ragazze e nessuno ha problemi, non ce ne importa. E poi non esiste razzismo, uno con la pelle nera lo chiamiamo tuicco (turco, n.d.r.) ma è una definizione e basta. Se non sei razzista non hai paura delle parole». Ha ragione. La notte di Palermo è un caos indescrivibile, ipnotico, colorato. Tutto è vicino a tutto: persone, architetture, cibo, oggetti. Un equilibrio instabile che altrove parrebbe impensabile. E più che in qualsiasi altra città d’Italia, senti che il colore della pelle è un dato del tutto irrilevante.
Poi c’è il lato oscuro di tutto questo. Le cronache delle ultime settimane ci hanno raccontato della degenerazione di questo senso di libertà. L’ennesima violenza su una ragazza da parte di un gruppo di giovani uomini ancora oggi convinti (per retaggi antichi e per distorsioni tristemente moderne) che il corpo di una donna sia materiale di cui appropriarsi; che l’abuso sia qualcosa di cui addirittura vantarsi.
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Città indecifrabile
Cercare di capire Palermo è come cercare di afferrare l’inafferrabile. Se uno ha voglia di provarci non può evitare un giro nei suoi leggendari mercati. Borgo Vecchio, Capo, Ballarò, Vucciria, in bilico, almeno alcuni, fra autenticità e trasformazione in attrazioni turistiche. Il più interessante di tutti è sicuramente il mercato di Borgo Vecchio, per via soprattutto del quartiere omonimo in cui è collocato. Quasi un mondo a parte: disagio, degrado, disoccupazione, evasione scolastica, case diroccate, rifiuti per strada. Eppure, in un contrasto tipicamente palermitano, a pochissima distanza ci sono le palazzine liberty della città elegante, i negozi di lusso, il teatro Politeama. Eppure, negli ultimi anni il quartiere ha cercato un pezzo di riscatto dal degrado anche grazie ai tanti murales dipinti sulle facciate delle antiche case del rione. Molti di questi murales (un mezzo che anche altrove è vettore di cambiamento e di riscatto per le zone urbane in difficoltà) sono stati realizzati su bozzetti disegnati da bambini del quartiere.
A proposito di metafore: ai confini del rione di Borgo Vecchio vi è il carcere dell’Ucciardone. Il suo nome pare derivi dal siciliano “u ciarduni”, che altro non è se non una storpiatura del francese “chardon”, che significa cardo. Il nome ricorda che su quel terreno, prima della costruzione del carcere, veniva coltivata quella pianta. Nell’aula bunker – oggi intitolata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – sono stati celebrati svariati processi, primo fra tutti il maxiprocesso risalente alla metà degli anni Ottanta che per la prima volta, condannando centinaia di mafiosi per centinai di imputazioni, riconobbe l’esistenza della cupola di Cosa Nostra. Un evento storico di portata planetaria.
Tutto esagerato
Palermo è esagerata in ogni aspetto, l’ho già detto. Ma ripeterlo è inevitabile. Anche il verde sembra esagerato, anch’esso replica lo schema dell’accostamento insolubile tra bellezza e decadenza. Come per esempio nell’Orto Botanico, una meta imperdibile. O nei giardini Garibaldi, dove si possono ammirare gigantesche piante esotiche, come gli immensi ficus macrophylla (originariamente dell’Australia e del Pacifico) dalle radici ciclopiche, emergenti sulla superficie del giardino come enormi alligatori. Queste piante straordinarie, all’interno di un giardino che sembra magicamente fuori posto, rappresentano una perfetta illustrazione della personalità potente e complicata di Palermo. Mentre ti aggiri sbalordito tra le meraviglie del giardino, ti imbatti in una targa commemorativa dedicata a Joe Petrosino, mitico poliziotto italo americano che fu assassinato dalla Mano Nera nel 1905 nella vicina Piazza della Marina. Così, con un balzo da un passato piuttosto remoto ti ritornano in mente le immagini dello sceneggiato televisivo con Adolfo Celi e la canzone della sigla Quattro colpi per Petrosino. “Nisciunu sapi chi mmori d’intu u scuro”, cantava Fred Bongusto.
Chi muore nell’oscurità
Nessuno sa chi muore nell’oscurità. A lungo è stato proprio così. Piazza della Marina è solo uno dei tanti luoghi all’interno di una tragica geografia urbana, dove i nomi delle vie potrebbero essere sostituiti con quelli delle vittime. Ogni angolo di questa incredibile città è segnato da un’ombra indelebile, popolato dai fantasmi delle innumerevoli vittime di Cosa Nostra. Osservando questi indirizzi, cercandoli su una piantina, unendo i punti fra l’uno e l’altro si ottiene un disegno terrificante. A ogni indirizzo corrisponde una data, a ogni indirizzo corrispondono uno o più nomi: poliziotti, carabinieri, politici, magistrati, preti, professionisti, uomini e donne allineati in un elenco tragico, per un numero di vittime che non ha uguali nella storia criminale dell’occidente moderno. È impossibile – e non è giusto – parlare di Palermo senza riflettere su questa mappa, senza ricordare questa geografia, senza fissare lo sguardo su questa terrificante cicatrice. Via dei Cipressi, Via Mariano Stabile, Via Rutelli, Via della Libertà, Via Cavour, il Policlinico, Piazza Generale Turba, Via Isidoro Carini, Via Notarbartolo, Via Cristoforo Scobar, Via Pipitone Federico, Via Croce Rossa, Via Alfredo Cesareo, Via Alessio, Via Alfieri, Via d’Amelio, Piazzale Anita Garibaldi. Chi ne ha voglia può andare a vedere chi è stato ucciso, e dove e quando.
Ci sono molte belle frasi sul senso della lotta alla mafia. La mia preferita – quella che più di tutte rende il senso etico e laico di una parola abusata come “eroismo” – è la seguente, di Paolo Borsellino: “Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. (Fonte).