Quante Sara devono ancora morire? Il tempo delle frasi di circostanza è finito
“Il malato mi segue.”. Con queste parole, Sara Campanella lanciava il suo ultimo grido di aiuto. Nessuno l’ha ascoltata. E oggi non c’è più.

C’è una stanchezza che logora più della rabbia: è quella che nasce dal sentirsi impotenti davanti all’ennesimo femminicidio. Ogni volta, la stessa dinamica. Ogni volta, le stesse parole. Ogni volta, lo stesso orrore. Eppure, non cambia nulla.
Sara Campanella, studentessa universitaria di 27 anni, è stata uccisa in pieno giorno, in mezzo alla strada, a Messina, da un uomo che la seguiva da anni. Stefano Argentino, suo ex compagno di università, l’ha colpita alla gola con un taglierino dopo averla pedinata, cercata, importunata. Un’ossessione trasformata in sentenza di morte.
Ma Sara aveva parlato. Si era confidata. Aveva inviato messaggi vocali alle amiche, raccontando il disagio crescente, la paura, la sensazione costante di essere seguita. Le sue parole sono oggi agli atti, come se bastassero a dare dignità a una verità già nota: Sara era in pericolo. E nessuno l’ha protetta.
L’ossessione che non si può più chiamare amore
Stefano Argentino si lamentava perché Sara non gli sorrideva più. Come se un sorriso fosse un diritto, un contratto, un possesso. Come se il rifiuto di una donna fosse una colpa da punire. Non è amore. Non è mai stato amore. È una cultura del possesso, della rivendicazione, dell’umiliazione trasformata in vendetta.
Sara urlava “basta, lasciami” mentre cercava di fuggire. La sua corsa disperata è diventata l’ultimo atto di una tragedia che poteva essere evitata. Perché l’allarme c’era. Le prove c’erano. I segnali erano tutti davanti agli occhi.
Le frasi di circostanza: anestetici morali
Ogni volta che una donna viene uccisa, si solleva il coro delle frasi di sempre.
“Era un ragazzo tranquillo.”
“Non c’erano denunce formali.”
“Mai ci saremmo aspettati una cosa del genere.”
E poi, puntuale, il cordoglio sui social, le fiaccolate, i fiori. E tutto torna a tacere.
È una coreografia del lutto che serve solo a pulirci la coscienza. Una messa in scena che si ripete, identica, mentre altre donne camminano per strada con la paura negli occhi.
Quante Sara dobbiamo ancora perdere?
Quante ragazze devono ancora morire prima che questo Paese capisca che non si tratta di casi isolati, ma di un sistema malato che normalizza la violenza, minimizza il molestatore, colpevolizza la vittima?
Quante Sara, Antonella, Francesca, Giulia dovranno pagare con la vita per la nostra incapacità di ascoltare, agire, proteggere?
La verità è che, finché le donne verranno credute solo quando sono già morte, la giustizia sarà sempre in ritardo. Finché il rifiuto sarà visto come una provocazione, un’offesa all’ego maschile, nessuna sarà davvero al sicuro.
Non possiamo più permetterci il silenzio
La morte di Sara Campanella è un fallimento. Un fallimento delle istituzioni, della società, della cultura in cui siamo immersi. Ma è anche un monito. Un urlo che ci riguarda tutti. Perché la prossima potrebbe essere nostra sorella, nostra figlia, la nostra migliore amica.
La domanda, oggi, non è più “Come è potuto succedere?”
La vera domanda è: “Cosa stiamo facendo – concretamente – per impedirlo?”
E se la risposta è “niente”, allora non siamo solo spettatori. Siamo complici.