Più ansiosi e demotivati, ma anche più consapevoli e liberi da stereotipi di genere. Dopo due anni di pandemia, il disagio psicologico durante gli studi universitari è diventato un tema di discussione che impone un cambiamento di rotta e di narrazione
Che i vent’anni non siano l’età verde e spensierata raccontata da serie tv e tramandate generazione dopo generazione non è una novità, ma mai come oggi è stato evidente quanto questi vecchi stereotipi fossero caduti in disuso. Al loro posto c’è una generazione che sta cercando di costruire una nuova narrazione che non ha paura di abbracciare la complessità, di mostrarsi fragili e di rivendicare il diritto allo stare bene.
E forse non è un caso. Stando ai dati del Bes la salute mentale dei più giovani è peggiorata a colpi di Dpcm pandemici anche nelle fasce d’età adolescenziali e colpendo maggiormente le donne. Quello che dalla carenza di dati recenti stenta ad emergere, ma che si ripropone con violenza quando sono i fatti di cronaca ad accendere una luce sulla questione, è la necessità di focalizzarsi su uno dei sottogruppi più colpiti negli ultimi anni e che ha visto deteriorare il proprio benessere mentale: gli studenti universitari. Prima nel 2010 uno studio australiano (Psychological distress in university students: A comparison with general population data, H. Stallman, 2010), poi un report incentrato sugli studenti italiani del 2018 hanno evidenziato come gli studenti universitari soffrano di disagio mentale in percentuali maggiori rispetto ai loro coetanei che non frequentano università.
ANSIA E OVERCOMMITMENT
Partendo da questo, non sorprende che dopo due anni di pandemia, i dati di richieste ai counseling psicologici delle università intervistate (Università di Bari, La Sapienza di Roma e Università di Padova) abbiano registrato un aumento costante di accessi negli ultimi 3 anni. Una delle ricerche più mirate in questo senso effettuata da Ires Emilia-Romagna e confluita nel report “Chiedimi come sto” conferma che durante la pandemia dal 68 al 70% degli studenti universitari intervistati hanno vissuto un aumento di ansia, solitudine, noia e demotivazione e sottolineano come il rientro in presenza abbia acuito gli episodi di disagio soprattutto in occasione degli esami. “Con la fine della pandemia si è ritornati alla frequenza, però con un peso sulle spalle – afferma la prof. Annamaria Speranza, docente ordinaria di Psicopatologia dello sviluppo della Sapienza Università di Roma e referente del counseling psicologico dell’ateneo – Il principale problema, soprattutto per questa fascia d’età, è stato il fatto che le chiusure e le difficoltà di partecipazione alla vita sociale, oltre che universitaria, hanno comportato ovviamente un’accentuazione o l’insorgenza di stati ansiosi e depressivi prevalentemente legati alla difficoltà di affrontare proprio un momento come quello della pandemia e anche il successivo recupero però di un’attività quotidiana normale”.
Un altro dato da non sottovalutare è l’aumento vertiginoso dell’uso dei social e dei mezzi di informazione che in parte possono essere responsabili di un aumento della pressione sociale sulla performance e quindi sulle aspettative. La narrazione tossica di percorsi universitari eccellenti, la competizione e il costante confronto con gli altri acuiscono la misperception del proprio percorso di studi e di vita. “Il carico di studio richiesto dall’università – spiega la professoressa Speranza – non è cambiato, a cambiare è tutto quello che c’è fuori. Noi siamo una società che è molto sulla performance, quindi è necessario smontare un po’ alcuni tipi di modelli. Distinguerei quello che è l’impegno che ci può portare al merito, da quello che è invece la normalizzazione di percorsi “eccezionali”. Quello che, come università, bisogna tutelare è la vulnerabilità soggettiva dei ragazzi. Per questo ritengo che sia vero che oggi c’è una maggior pressione dovuta alla narrazione dell’eccellenza e alla costante visibilità, ma non bisogna perdere di vista il fattore individuale e concentrarci su quello: la singola fragilità”.
Un ulteriore fattore da considerare è l’overcommittment, ossia l’impegno eccessivo negli studi che porta al burn out ed è una delle cause principali nello sviluppo di disagio psicologico. Nello studio Mental health among university students basato su un campione di studenti italiani si sottolinea come l’eccessivo impegno negli studi, ossia il costante pensiero ai doveri accademici e la capacità di disconnettersi dallo studio fuori dall’orario dei corsi, sia il fattore principale di disagio psicologico.
Ma una cosa positiva la pandemia l’ha fatta, ossia sdoganare alcuni temi centrali per la cura e benessere psicologico. “Sono anni – continua la prof Speranza – che sento dire che i giovani oggi sono più fragili e sebbene io veda una maggiore sensibilità, non penso che siano una generazione più fragile in assoluto o molto più problematica. Sicuramente sono più consapevoli e la pandemia in questo è stata cruciale perché per la prima volta si è parlato in modo diffuso di quanto tutti stavano soffrendo psicologicamente e questo ha in qualche modo “normalizzato” e fatto sentire più autorizzati a parlarne”.
UNA QUESTIONE DI GENERE
Tornando ai numeri dei counseling psicologici delle università italiane, un dato che emerge in modo trasversale riguarda la rappresentanza di genere. Il 70% degli accessi è infatti ad opera delle studentesse, all’incirca il 30% da parte dei colleghi maschi e, dove rilevata, una percentuale del 0,4% di studenti transessuali.
Le radici di questa differenza sono molteplici e sono figlie di una cultura tossica che per anni ha predicato il mito dell’uomo forte e invulnerabile e richiesto alle donne uno sforzo maggiore per affermarsi in ambito accademico e lavorativo.
“C’è una tendenza di genere –continua la prof. Speranza – su come si esprime la sofferenza: le ragazze tendenzialmente hanno quelle che si chiamano manifestazioni con sintomi internalizzanti cioè ansia e depressione, mentre invece i maschi presentano una prevalenza di disturbi esternalizzati che sono più come dire agiti: comportamenti antisociali e dipendenze per esempio. Però questa spiegazione è secondo me meno rilevante di quanto non sia quella legata proprio al fatto che per le donne è meno difficile chiedere aiuto poiché per le ragazze non è stigmatizzante mostrare fragilità, come lo è al contrario per un ragazzo”.
Come detto in precedenza, essendo l’overcommitment alla base del disagio, non sorprende come le donne siano più esposte in quanto a fronte di una performance accademica migliore, si trovano socialmente penalizzate una volta arrivate nel mondo del lavoro. La pressione è quindi maggiore dove il rapporto tra impegno e risultato è fortemente sbilanciato verso un genere sfavorendone un altro. Il campione italiano esaminato dagli studiosi sul Journal of affective disorder conferma questa tesi: “Le studentesse sperimentano uno sforzo elevato, una ricompensa bassa […] e un impegno eccessivamente elevato rispetto ai loro coetanei maschi e questa maggiore esposizione potrebbe contribuire alla differenza di genere nel disagio psicologico”.
La salute mentale degli studenti dovrebbe essere tema di interesse pubblico, eppure ancora oggi è difficile trovare dati che analizzino il fenomeno e traccino i vari aspetti di cui si compone e che si ripercuotono sui più vulnerabili. In Italia ad oggi mancano per esempio i dati aggiornati sui suicidi tra gli studenti e mancano studi mirati che definiscano pattern e regole per supportare i più giovani in una fase delicata e fondamentale come quella del proprio percorso accademico.
COSA PUÒ FARE L’UNIVERSITÀ?
Le necessità delle studentesse e degli studenti hanno portato le università italiane a rafforzare le loro strutture di counseling e a creare anche nuovi strumenti alternativi con cui intercettare quante più persone interessate. E gli esempi si moltiplicano in tutto il Paese. A La Sapienza di Roma c’è NoiBene, un programma nato per prevenire il disagio psicologico e che mette a disposizione moduli di apprendimento relativi a diversi aspetti del funzionamento psicologico e relazionale, attraverso una piattaforma di e-learning e incontri periodici a distanza con un tutor, o con percorsi di gruppo. Un approccio che va in parallelo al counseling più classico già presente nell’Ateneo. All’università di Bari sono stati aperti nove sportelli di counseling dislocati nelle facoltà e nelle sedi di Brindisi e Taranto, in modo da raggiungere in maniera capillare le esigenze della popolazione studentesca. Sono previsti quattro incontri gratuiti più uno di follow-up con psicologi appositamente contrattualizzati, con cui spaziare da questioni personali a incontri collettivi finalizzati al miglioramento del metodo di studio. Recentemente è stato aperto uno sportello per le problematiche legate all’orientamento sessuale e identità di genere. A Padova, in uno dei centri universitari più avanzati d’Italia, la didattica duale ha aperto alla possibilità per il centro Scup (Servizi Clinici Universitari Psicologici) di proseguire le sue attività di sostegno anche online, sdoganando l’intervento da remoto. Sono stati inseriti nuovi contratti per smaltire le liste d’attesa e si stanno introducendo una serie di questionari online come triage per la popolazione studentesca e screening della condizione, in modo da fornire un aiuto in modo mirato.