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Unipa nelle varie classifiche, Lagalla: “Non giudichiamo e consideriamo la differenza di risorse”


«Non mi esalto per i buoni piazzamenti in classifiche e non mi avvilisco per le valutazioni meno positive». A parlare è il rettore dell’Università degli Studi di Palermo, Roberto Lagalla che fa una lunga disquisizione su Facebook intorno alla posizione di Unipa nelle varie classifiche stilate negli ultimi mesi.

«L’articolo di Francesco Coniglione “Ranking delle Università le italiane non sfigurano. In molte anzi brillano a dispetto degli scarsi finanziamenti” su La Sicilia dello scorso 21 Agosto – scrive -, sviluppa una interessante analisi e mostra, al contempo, come la nostra Università in base al numero di piazzamenti in undici ranking internazionali tra il 2013 e il 2014, si piazzi in una posizione più che ragguardevole. La recente classifica delle università – l’Academic Ranking of World Universities (ARWU), compilata dalla Jiao Tong University – è all’origine di una troppo facile pubblicistica che se ne serve per sottolineare quanto le nostre università siano scadenti e quanto non valga la pena di investire in esse. Ma numerose sono le critiche e le perplessità che nella letteratura scientifica suscitano tali classifiche a partire dai criteri che vengono utilizzati per stilarle, che certo non favoriscono le università italiane: il numero dei premi Nobel o delle medaglie Field assegnati ai docenti o il giudizio dato dagli “alunni” (cioè gli ex studenti) sulla qualità dell’educazione o gli articoli pubblicati su sole due riviste (“Nature” e “Science”) ecceterea, certo non possono favorire le università non anglosassoni».

«Inoltre – continua – , classifiche di questo tipo ve ne sono parecchie. Se le si esamina comparativamente, privilegiando la qualità della ricerca scientifica, si vede che le università italiane non vanno poi così male. Ad esempio, in quella della National Taiwan University v’è Milano statale tra le prime 100, mentre cinque sono tra le prime 200 e così via, per un totale di ben 26 università tra le prime 500. E tra queste ci sta anche Catania, che occupa il 389° posto. Nell’ARWU, vi sono 21 università italiane tra le prime 500 e l’Italia ha così il quinto posto al mondo per numero di università in classifica (a pari merito con Francia e Canada), dopo gli Stati Uniti, la Cina, la Germania e il Regno Unito. E se consideriamo le sole università statali siamo al 34,5 per cento delle università italiane. Il che è una percentuale molto elevata se si considera che le prime 500 università al mondo (ce ne sono circa 17.000) sono la crema delle università e se si tiene conto del fatto che le università di ricerca statunitense tra le prime 500 sono il 32,6 per cento. Insomma è come dire che quasi un terzo delle università italiane si colloca nel top del 3 per cento mondiale».

Secondo Lagalla, dunque «si potrebbe in sostanza fare per le università italiane la stessa valutazione che nel 1999 ha portato l’Onu a classificare il sistema sanitario italiano come il secondo migliore al mondo, risultato che desta stupore quando si abbia davanti agli occhi il degrado di certi reparti ospedalieri, ma che diventa plausibile se si tiene conto della sua copertura media sulla popolazione e non soltanto dei centri di eccellenza scientifica. Allo stesso modo, il nostro sistema universitario è complessivamente di buon livello, nel senso che esso assicura una qualità media diffusa sul territorio con pochi picchi (che si concentrano in specifiche discipline), ma anche senza troppe deficienze gravi. Ed inoltre il numero di università su tale medio livello è considerevole, visto che ci si posiziona come il quarto o quinto paese al mondo per numero di università che rientrano tra le prime 500, a seconda delle classifiche prese in esame».

«Ma Catania? – si chiede il rettore -. Certo non è presente nella classifica ARWU, se non per la fisica. Ma quale è la sua performance generale nella varie classifiche esistenti? Ebbene, considerando gli undici ranking più importanti, vediamo che Catania si piazza in “posizione utile” (cioè in generale tra le prime 500 o addirittura 400) in ben quattro ranking (cinque nel 2013). E le università italiane ad avere piazzamenti in almeno due ranking non sono mica molte: solo 31. Dunque, anche in questo caso vale quanto detto prima sulla performance generale delle università.

Non si può infine ignorare la questione del finanziamento. Vogliamo fare qui soltanto un esempio, prendendo come pietra di paragone l’università di Harvard, che in tutti i ranking occupa quasi sempre il primo posto: essa ha ricevuto per il 2009 in finanziamenti per ricerca circa 705 milioni di dollari; il nostro ministero (Miur) ha stanziato per finanziare l’intera ricerca universitaria italiana per il 2009 la somma di 136.754.000 di dollari, cioè solo il 19,3 per cento di quello che riceve la sola Harvard; e Catania ha avuto nel 2010 la somma di solo 4,2 milioni di dollari, cioè lo 0,6 per cento di quanto avuto da Harvard, pur avendo un numero di docenti superiore e tre volte più studenti di quelli immatricolati nella prestigiosa università americana».

Riguardo, invece, all’intera spesa scientifica del sistema universitario italiano (qualunque ne sia la fonte di finanziamento, privata o pubblica), «apprendiamo da dati ministeriali  – sottolinea Lagalla – che nel 2006 questa ammontava a 5.327,4 milioni di dollari. In considerazione del fatto che di certo essa non è cresciuta in maniera consistente ad oggi (il Fondo di finanziamento ordinario è infatti calato del 19,3 per cento in termini reali dal 2009 al 2013), constateremo che la spesa per tutta la ricerca scientifica universitaria italiana è soltanto circa 8 volte superiore a quella della sola Harvard. Con questi numeri la domanda che di solito si fa (perché i ricercatori italiani producono così poco rispetto ai colleghi americani?) andrebbe capovolta: come mai i ricercatori americani distanziano di così poco quelli italiani, in considerazione dei mezzi strumentali, delle risorse economiche e delle strutture di cui beneficiano?»

«Insomma – conclude -, prima di disprezzare l’università italiana stiamo attenti a cosa giudichiamo e teniamo presente la differenza di valori e di risorse. Per dire l’ultima, è stato calcolato da Ellen Hazelkorn che per entrare tra le top 100 un ateneo deve spendere annualmente qualcosa come 1,5 miliardi di euro. Quante sono le università italiane che possono permettersi simili spese? Non certo Catania, le cui entrate totali per il 2011 sono state all’incirca di 344 milioni di euro».

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