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Università chiuse, fabbriche aperte


Le fabbriche (ri)aprono, le università no. Ristoranti, bar, librerie, parrucchieri, negozi di abbigliamento eccetera riaprono, biblioteche e archivi no. Spiagge, parchi e località di montagna riaprono, la ricerca no. Non è alla lettera così, ma quasi e intanto il regime online continuerà in varie università almeno nel primo semestre 2020-21.

Archivi e biblioteche risultano spesso in funzione, ma con macchinosi appuntamenti (diversi di caso in caso) che rallentano enormemente i tempi della ricerca. Evidente la differenza da musei e mostre, che riaprono praticamente dappertutto. È chiaro perché: musei e mostre hanno introiti di biglietteria, biblioteche e archivi no. In questo orizzonte una riflessione s’impone.

Con un colpo di spada, e in nome del virus, stiamo tagliando il mondo in due, e lo stiamo facendo in coro, tutti insieme: chi scrive le norme, chi le rispetta e perfino chi le contesta. Il confine che stiamo tracciando è fra attività produttive e quelle che non lo sono, dando per scontato che le attività produttive non possono aspettare, il resto sì. Ma davvero biblioteche, archivi, università e ricerca non sono “attività produttive”? E poi: si può davvero credere che l’insegnamento telematico sia un valido sostituto di quello in presenza? Gira una conspiracy theory secondo cui l’università in presenza verrà presto sostituita da reti virtuali, lezioni registrate, professori e studenti a casa in ciabatte, senza far comunità. Occulti controllori delle coscienze starebbero manovrando per narcotizzare la vocazione critica dell’università come comunità pensante, e dunque focolaio di ribellione, un perpetuo Sessantotto che cova sotto la cenere. Fantasie, queste, coltivate da pochi; ma generalmente diffusa è invece la convinzione che le attività produttive sono il motore della società (cioè non solo dell’economia ma della vita civile), perciò vanno protette e rilanciate subito, mentre altre cose, a cominciare da scuola, ricerca e università, possono ben attendere, e se tutto va online non cambia niente (si è anche inventato un neo-acronimo, DAD “didattica a distanza”, da preferirsi alla “didattica in presenza” o DIP). E non mancano studenti (o le loro famiglie) che vedano in una proroga della DAD un vantaggio economico: niente viaggi, niente camere d’affitto e altre scomodità.

Le università nacquero nel Medioevo europeo come comunità di studenti e d’insegnanti, e questo è stato e resta il sale e il cuore del loro vivere, progettare, produrre il futuro. La disgregazione anche solo temporanea di questo tesoro lo mette a rischio. Da qui bisogna partire per chiedersi : ma perché radunare alcune decine di persone in un ristorante è segno di rinascita, di democrazia, di ripresa del Paese, e radunare lo stesso identico numero di persone in un’aula è invece pericolosissimo? E come mai criteri e decisioni variano da una città all’altra, da un ateneo all’altro, e il ministero tace? Conseguenza, certo, del malinteso regime concorrenziale fra le università tanto strombazzato nell’era Gelmini, mentre proprio l’emergenza che attraversiamo dovrebbe render chiari i vantaggi, qui come nella sanità, di una necessaria regia governativa centrale. Continua invece, rinfocolata dall’incerta prospettiva di un autunno che incombe, la giungla dei provvedimenti sede per sede, dipartimento per dipartimento.

Le autorità accademiche non nascondono quale sia la preoccupazione che le guida in favore della DAD anche se sanno che è meglio la DIP: il timore di prendersi la responsabilità di eventuali contagi, l’incubo che uno studente contagiato potrebbe far causa, che so, all’università o alla biblioteca. Ma come mai non si fa lo stesso ragionamento per fabbriche, ristoranti, bar, stabilimenti balneari? Scartata l’ipotesi che il Coronavirus ami colpire selettivamente studenti e docenti risparmiando bagnanti e avventori dei bar, non resta che una congettura: i luoghi di ricerca e insegnamento hanno un senso istituzionale indebolito, chi li amministra non ritiene che la loro funzione sia talmente essenziale da organizzarne la riapertura, anche graduale, appena possibile. Governo e opinione pubblica fanno ben poco per combattere questa debolezza che rischia di diventare congenita, e perciò molti responsabili di strutture accademiche o di ricerca si lasciano guidare non dal senso delle istituzioni e del pubblico interesse, ma dalle paure di una responsabilità personale che paventa rappresaglie ed evita il minimo rischio. Chi ragiona così non si sente protetto dallo Stato o dalla società, anzi si sente esposto a ogni vento, a ogni accusa. Non può ignorare che se tutti ragionassero come lui non potrebbe metter piede in un bar, andare dal barbiere, sperare in un bagno di mare, visitare una mostra; ma è convinto che ristoratori, bagnini e baristi siano al riparo da querele e accuse, lui no.

Tre fattori sono in ballo in questo gioco al massacro delle istituzioni educative e di ricerca. Prima di tutto, la fragilità e debolezza delle strutture, a cominciare dalle aule : ma perché non coinvolgere, invece, le istituzioni di ogni città, sempre ricche di spazi poco utilizzati – fondazioni bancarie, camere di commercio, unioni industriali – per moltiplicare il numero delle aule disponibili? Anche il personale è insufficiente a organizzare turni adeguati, e la povertà dei bilanci spinge a puntare sulla convenienza “aziendale” di sospendere la parte di lavoro (crescente) svolta da cooperative, come spesso avviene nelle biblioteche, e si finisce così col licenziare di fatto i precari più deboli. Secondo fattore, l’abbiamo ricordato, il pregiudizio secondo cui insegnamento e ricerca non sono produttivi (ma dove sarebbero le fabbriche senza chi ha progettato quel che vi viene costruito? E quei progettisti dove mai hanno imparato, se non nella scuola e nell’università?). Infine l’habitus (non proprio ardimentoso) di cautelarsi costi quel che costi; e anche qui c’è di mezzo una gerarchia, fra l’interesse di una persona (il burocrate o preside di turno) e quello di una comunità o del Paese. Il ristoratore che riapre la pizzeria si dirà: se qualcuno dei miei avventori tra un mese risulta contagiato, come farà a dimostrare che è successo qui e non altrove? Il rettore che chiude l’università si dirà invece: e se poi qualcuno se la prende proprio con me, io perché dovrei rischiare? Su questo tema servirebbe un deciso pronunciamento del governo, un’analisi rigorosa delle opzioni, un coordinamento delle risposte. Se no, dovremo chiederci: il virus che indebolisce le responsabilità istituzionali non sarà ancor più dannoso del Covid-19?

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