La morte di Diana Biondi, la studentessa di 27 anni di Somma Vesuviana, ha fatto ancora una volta luce su un problema sentito da migliaia di ragazzi e ragazze italiane. Abbiamo ascoltato la voce di alcune di loro
Diana Biondi, studentessa di 27 anni, è stata trovata morta in un dirupo a Somma Vesuviana. L’ipotesi su cui lavora la procura è che la giovane abbia deciso di lanciarsi nel vuoto a causa di una bugia legata alla sua laurea. Diana, infatti, aveva già annunciato ai parenti la data per discutere la tesi. Ma in realtà un esame di latino la separava ancora dal traguardo. Era, in altre parole, una «fuori corso»: termine con cui si identificano gli studenti che superano la durata normale del corso di studio senza aver conseguito il titolo accademico, o senza aver superato tutti gli esami necessari per l’ammissione all’esame finale. Due parole che però assumono con sempre più forza i contorni di un marchio infamante. E che in molti casi celano un universo di dolore, ostacoli e difficoltà che possono anche rivelarsi insuperabili. Per conoscerlo, abbiamo parlato con chi lo abita.
Giada, Ilaria, Alessia: le vite dietro i libretti
Giada ha 25 anni, vive a Verona e studia Lettere classiche. Attualmente, è fuoricorso da quattro anni. Tutto è iniziato quando, al terzo anno di università, alcuni problemi personali hanno rallentato il suo ritmo di studio. Catapultandola presto in una esasperante situazione di stallo: «Non riuscivo più a tornare al passo con gli altri. Ero stata una studentessa modello sin da bambina. D’un tratto, quello che ero sempre stata non esisteva più», racconta ad Open. Per lei, essere «fuori-corso» si trascinava dietro un’accezione negativa: «Indicava le persone meno brave, meno volenterose. Ho iniziato a temere di conoscere gente nuova: quando il discorso saltava inesorabilmente fuori, percepivo come mi guardavano». Così racconta di essere «caduta in depressione»: «Passavo le giornate tra il letto e il divano. Per ben due anni non ho avuto la forza di andare in università a sostenere gli esami».
Diverso è il caso di Alessia. Quasi 25 anni, studentessa di giurisprudenza all’università di Modena, fuoricorso per due esami posticipati. «Sono spesso stata penalizzata dall’ansia». «Ho scelto di iniziare questo percorso perché è ciò che mi piace, ma soprattutto dopo il Covid il piacere si è trasformato in agonia. Ritrovarsi costretti a stare sempre in casa, senza uno spiraglio di libertà o svago, ha molto inciso sul mio rendimento». E l’angoscia, in molti casi, è diventata paralizzante: «La paura di essere bocciata agli esami mi portava a rimandarli senza nemmeno provarci». Esperienza per alcuni aspetti simile a quella di Ilaria, 26 anni. Originaria di Ancona, frequenta la facoltà di psicologia a Padova. Racconta di avere una media molto alta, ma, sospira: «I miei tempi non sono ottimali come quelli degli altri». Il peso inizialmente poco rilevante degli intoppi si è trasformato in un macigno se relazionato ai sensi di colpa nei confronti della famiglia, da cui dipende economicamente.
Scontri generazionali
E, quando si parla di rendimento e familiari, è facile scivolare in un circolo vizioso. «Mia madre non accetta la mia condizione di fuoricorso. Si vede che è rimasta delusa, e io ne soffro, ma provo anche rabbia, perché non sono in questa situazione per mancanza di impegno: passo le mie giornate a studiare», racconta Alessia. Che aggiunge: «Nessuno dei miei genitori è laureato. Ho provato a spiegare che non è facile. Eppure molte volte mi sono sentita giudicata». Incomunicabilità che riecheggia nelle parole di Giada: «Non possono capire appieno quello che passiamo. La loro generazione vedeva lo studio come strumento di lavoro: sbrigarsi a laurearsi per poi lavorare, produrre, essere indipendenti. Non capiscono che ormai questo meccanismo si è inceppato. So che dopo la laurea, mi aspettano solo anni di precariato».
Spesso, inoltre, «i genitori proiettano sui figli le proprie ambizioni: questo può generare in noi un’enorme pressione», puntualizza Ilaria. Giada conferma: «Fintantoché ero una studentessa modello, ero motivo di orgoglio. Quando ho iniziato a rendere meno, sono diventata motivo di vergogna». L’ostilità viene manifestata in alcuni casi anche dagli stessi docenti: «A volte ti prendono in giro, quando vedono che non sei in regola. Altre volte, fanno di peggio: ti penalizzano, tolgono gli appelli, ti umiliano davanti agli altri, ti mettono in difficoltà con gli esami».
Quando la mente diventa il nemico
Esperienze diverse, personalità diverse, percorsi diversi. Ma su una cosa, convergenti: il racconto dei suicidi provocati dagli insuccessi universitari non le ha sorprese. «Quando la mente diventa il nemico, è molto difficile uscirne – spiega Ilaria -. Entri in una dimensione molto buia, molto solitaria, molto autocritica. La comparazione con gli altri diventa una costante». Giada aggiunge: «Parto da una cosa che penso accomuni tutti gli studenti che compiono gesti estremi: dire le bugie. L’ho fatto anche io, quando sono andata fuori corso. Non trovavo mai la forza di presentarmi agli esami, ma alle persone che mi circondavano dicevo che andava tutto bene. Una volta, ho detto che uscivo per andare all’Università. Invece ho girato da sola per le vie della città, piangendo».
Un meccanismo, spiegano, alimentato dall’idea che tutto il tempo tolto allo studio è «sprecato»: «Avevo smesso di andare in palestra, di uscire – prosegue Giada -. E nel momento in cui va male anche lo studio, pensi: non va più bene niente. Sentivo di non meritare neanche le vacanze. Arrivi un momento in cui dici: spero di mettermi a letto e non svegliarmi più. Ti sembra che la vita non abbia senso, che non potrai più recuperare. Pensi: ‘sono un fallimento e basta’». Ilaria aggiunge: «Non è che si smette di voler vivere. Ma si inizia a desiderare di smettere di soffrire».
Abbattere lo stigma
Giada, Ilaria e Alessia hanno creato una pagina Instagram per «reagire e abbattere i pregiudizi contro i fuoricorso»: si chiama La voce dei fuoricorso, e raccoglie testimonianze anonime di studenti in difficoltà. «Volevamo cercare nel nostro piccolo di trasformare la sofferenza provata in uno strumento per aiutare noi stesse e gli altri», spiega Giada. «Attraverso la pagina abbiamo creato una community. Spesso studiamo insieme in videochiamata, chiacchieriamo insieme in una chat su Telegram: ci supportiamo, ci motiviamo, ascoltiamo i rispettivi sfoghi, festeggiamo i rispettivi traguardi». Fare gruppo è un passo importante, così come abbattere lo stigma.
Ma, da soli, non bastano. Le cose da cambiare sono molte, ma le idee chiare: «Innanzitutto – puntualizzano -, bisognerebbe parlare del tema. Dovrebbero farlo i giornali, che raccontano tragedie eclatanti come quella di Diana per poi dimenticarsene poche ore dopo. Dovrebbero farlo le Università, organizzando incontri e soprattutto offrendo un supporto psicologico. Adesso devi aspettare secoli per incontrare un consulente, e gli appuntamenti gratuiti sono troppo pochi». Ma gli atenei dovrebbero ripensare radicalmente il loro approccio al problema: farlo attraverso «la revisione dei regolamenti tasse punitivi, ma anche la messa a disposizione di appelli straordinari per gli studenti a cui mancano pochi esami alla laurea». Alessia si dimostra più radicale: «Abolirei il concetto di “fuoricorso”. Ognuno deve avere i suoi tempi. Non si può pensare a 19 o 20 anni di essere un fallimento, per colpa dell’università».