Ci sarebbe un filo conduttore tra i casi di trombosi registrati dopo la somministrazione dei vaccini AstraZeneca e Johnson&Johnson. Entrambi i vaccini anti-Covid utilizzano infatti una piattaforma a vettore virale. Si tratta della stessa tecnologia grazie alla quale, spiega all’Ansa il farmacologo Antonio Clavenna del dipartimento Salute pubblica dell’Istituto Mario Negri di Milano, “vengono utilizzati virus modificati in laboratorio perché risultino incapaci di replicarsi una volta introdotti nell’organismo”. “Nel caso di AstraZeneca e di Johnson&Johnson, si usano adenovirus responsabili in genere di processi infettivi a carico delle alte vie respiratorie”.
AstraZeneca usa un adenovirus di scimpanzé, J&J un adenovirus umano. “Questi virus inattivati vengono impiegati come ‘trasportatori’ – afferma Clavenna – per introdurre nell’organismo umano il Dna del nuovo coronavirus SarsCov2 con le istruzioni per fabbricare la proteina Sike, che è distintiva del nuovo coronavirus stesso. Una volta introdotto il vettore con le istruzioni, alcune cellule del nostro sistema immunitario iniziano a produrre Spike e il sistema immunitario si attiva contro la proteina, che riconosce come qualcosa di ‘diverso’ e pericoloso, e produce anticorpi che, qualora il soggetto entrasse a contatto con il virus reale, lo proteggeranno dall’infezione”.
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È “in questo modo, sottolinea il farmacologo, che funzionano i vaccini a vettore virale autorizzati dall’Agenzia europea dei medicinali Ema e dall’Agenzia italiana del farmaco Aifa, cioè il vaccino Vaxzevria di AstraZeneca in due dosi e il Covid Vaccine Janssen di J&J che è invece monodose“. Entrambi i vaccini sono ora all’attenzione delle autorità sanitarie dopo i casi molto rari di eventi trombotici segnalati. L’ipotesi allo studio, spiega Clavenna, è che proprio il vettore virale possa essere in qualche modo collegato al meccanismo che innesca tali eventi avversi rari.
In pratica, chiarisce, “l’organismo, in particolari casi e per ragioni al momento non note, riconoscerebbe comunque il vettore come un elemento estraneo producendo anticorpi contro di esso. Tali anticorpi, oltre a riconoscere il vettore virale, riconoscerebbero e si legherebbero però anche ad alcune sostanze normalmente prodotte dall’organismo stesso e che rientrano nel processo della coagulazione. Così, questi anticorpi avrebbero l’effetto di scatenare il processo di coagulazioni anche se non necessario, portando ai rari eventi trombotici”.
Al momento, sottolinea il farmacologo, “questa è tuttavia soltanto un’ipotesi. Ci sono ancora vari dubbi da chiarire e sono necessari ulteriori studi”. Ad ogni modo, se tale ipotesi fosse confermata, “ci potrebbero essere armi terapeutiche in grado, secondo alcune ricerche, di agire e prevenire questi fenomeni di ipercoagulazione”.